di Antonio Satta

Che l’Italia non possa continuare a vivere con 1.900 miliardi di euro di debito pubblico è ormai quasi senso comune, come è anche opinione profondamente radicata che non si possa risolvere il problema caricandolo sulle spalle di chi da oltre vent’anni non ha fatto altro che portare il peso delle continue manovre, necessarie a riportare in sicurezza il bilancio dello Stato.

Non è il caso, insomma, di far pagare il conto ancora una volata ai contribuenti onesti, che già pagano onerosissime tasse.

Da queste due diverse constatazioni è partito il lavoro che ha impegnato quest’estate due dei più esperti e capaci commis d’etat, l’ex dirigente del Senato ed ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi, Guido Salerno Aletta e l’ex Ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio. Uno sforzo di analisi ed elaborazione che alla fine è stato condensato in una proposta di legge, fatta propria dall’associazione L’Italia c’è, e che fra pochissimi giorni sarà pubblicata su questo giornale per essere poi offerta alla riflessione del governo e delle forze politiche.

L’obiettivo principale è riportare il debito pubblico italiano al di sotto del parametro fissato con gli accordi di Maastricht (60% del pil), un livello che l’Italia si è scordata dai primi anni 80. Il problema è che si parte ora da una percentuale quasi doppia, la stessa, presso a poco, toccata con la grande crisi del 1992, quando cominciò il ventennio dell’inutile rincorsa alla normalizzazione. Lo stock di debito, al momento, ha superato la soglia anche psicologica dei 1.900 miliardi, e per scendere al 60% del pil bisogna tagliarne circa 900 miliardi. Obiettivo che si può raggiungere, secondo Salerno Aletta e Monorchio, grazie a un insieme di misure attuabili nell’arco di vent’anni. È esattamente quel taglio del 5% l’anno del debito pubblico eccessivo che è stato deciso dalla Unione europea, senza effetti deflativi sulla crescita. Da una parte occorre ridurre il costo del debito pubblico e dall’altra abbatterlo. Il primo strumento è definibile Cash & Kind: si tratta di pagare tutte le spese pubbliche di rilevante ammontare corrispondendo accanto ad una alta percentuale in contanti una limitata quota in titoli di Stato. Un’idea che ricalca una soluzione adottata in passato da Beniamino Andreatta, quando era ministro del Tesoro, che per alleggerire la morsa della scala mobile, pagò in Bot gli aumenti della contingenza.

I titoli Kind, da corrispondere ai beneficiari delle spese pubbliche, avrebbero caratteristiche peculiari: durata ventennale, ammortamento lineare del 5% l’anno, rendimento annuo pari al tasso di sconto in vigore computato sulla somma residua. Per evitare il ripetersi della vicenda Efim, questo sistema si applicherebbe solo nei confronti dei cittadini italiani e delle persone giuridiche di nazionalità italiana. Il beneficio di una misura del genere potrebbe portare al risparmio di 200 miliardi nel ventennio preso in considerazione. Per gli altri 700 miliardi, però, c’è bisogno di una manovra più consistente, che potrebbe arrivare dalla costituzione di un fondo patrimoniale, al quale lo Stato dovrebbe conferire tutti gli asset pubblici disponibili, ma il capitale di questo fondo dovrebbe essere aperto ai cittadini, per effetto di un prestito forzoso, soluzione più accettabile per l’opinione pubblica di una patrimoniale a fondo perduto. E per permettere agli stessi cittadini di sostenere finanziariamente l’acquisto delle quote, il 50% del valore degli immobili sui quali non gravano ipoteche, potrebbe essere dato in garanzia a un consorzio di banche, con il risultato che il proprietario non sborserebbe soldi, ma potrebbe anche godere di una rendita dell’1% annuo, esente da imposte. (riproduzione riservata)