E’ un peccato che del nostro Risorgimento non possano raccontare le mirabolanti esperienze che hanno vissuto. Siamo abituati a vederli, nel variopinto presepe che è stato apprestato per loro, come belle statuine, con atteggiamenti, espressioni del viso e vestiti che sono sempre quelli dei ritratti e delle stampe dell’epoca. Perché per dare identità e valore e lustro all’epopea risorgimentale bisogna pur praticare un taglio netto tra l’Italia del «prima» Garibaldi e del «dopo» Garibaldi. L’utilizzo di stereotipi tranchant è sempre stato un vezzo della storia.Magli italiani avevano, nel loro DNA, il gene (e il genio) della finanza quando altri, nel mondo, facevano ancora fatica a far di conto. Ed è grazie a questo gene, o genio che dir si voglia, che lo strano stivale che compare sghimbescio nelle carte geografiche ha potuto farsi strada e arrivare fino a Garibaldi. Alla metà del Trecento i sovrani britannici sono a libro paga dei banchieri fiorentini: basta che le famiglie dei Bardi, dei Peruzzi e dei Frescobaldi chiudano i rubinetti per un paio di settimane per lasciare a secco la flotta, magazzini, marinai e pranzi per le regine. Nel Quattrocento i visir ottomani sarebbero diventati proprietari di gran parte dei palazzi Canal Grande se non ci fossero stati i dogi e i mercanti a sbarrare loro la strada. Ma i veneziani dell’epoca hanno fatto di più. Hanno assicurato anche i turchi e le loro galee che trasportavano pepe in Occidente, merce preziosa che doveva essere coperta da ogni rischio. Per non parlare poi di Filippo II, sovrano di Spagna nella seconda metà del Cinquecento, che sarebbe finito in bancarotta se i genovesi, i primi a creare le compagnie di assicurazione, non gli avessero garantito cospicui indennizzi per i galeoni che finivano in fondo al mare con il loro carico di oro e di argento. Cinquencento anni prima che a Londra venissero creati i famosi Lloyd’s, un piccolo mercante di PratodinomeFrancesco Datini aveva già trovato il modo di assicurare tutte le mercanzie che arrivavano ad Avignone, sede di una Corte papale che, per la sua ricchezza, valeva tre Bengodi. Quando Carlo Alberto, nel marzo 1848, entra a Milano alla testa delle truppe piemontesi resta talmente impressionato dalla ricchezza della città e dalla rete delle sue attività economiche. Cavour, che si considerava più furbo di tutti gli altri, la pensa diversamente. «Non si preoccupi dei milanesi,maestà, perché anche noi impareremo presto comesi fanno gli affari» dice a VittorioEmanuele II, impressionato, come il suo predecessore, dal gonfiore dei portafogli lombardi. E forse, per il Nord, Cavour ha fatto bene i suoi conti. I guai seri per il Regno cominceranno quando si espanderà oltre questi confini. E non perché i campani e i siciliani siano così diversi,ma perché un piccolo Regno, diventato grande troppo in fretta, in cassa ha solo cambiali che certo non bastano per tirare su unesercito di funzionari comesi deve.La cronica mancanza di argent condizionerà molte cose. Perché poi non ci sono solo le spese di guerra: bisogna anche accudire e foraggiare piùdi ventidue milioni di italiani, settemila comuni e una città come Napoli che, per numero di abitanti, è già la quarta in Europa. Eppure l’Italia alla fine ce la fa. Ringhia, indietreggia, torna ad avanzare: insomma, non molla. Mezza Italia è fatta di italiani ancora quasi analfabeti, ma dove trovare i «dindini» per mandarli a scuola e trovare loro un dignitoso posto di lavoro? Francesco Crispi usa metodi prussiani per soffocare quello che lui chiama «brigantaggio» ma che, non molto tempo dopo, si trasformerà inuna specie di Stato parallelo che finirà con il condizionare la vita di quello vero. Il Nord va invece a gonfie vele perché c’è chi si industria a far soldi sapendo dove trovarli e come investirli. Perché era già abituato e bene a farli prima di Cristo, pardon, prima di Garibaldi. E poi anche lo Stato dà segni di risveglio mettendo finalmente in pista les grands commis che di argent, per fortuna, se ne intendono. Giolitti incoccia in uncerto Beneduce e gli affida l’incarico di nazionalizzare, sulla scia di quel che ha già realizzato quel furbone di Otto von Bismark, le assicurazioni sulla vita, un polmone finanziario niente male. Ma Beneduce chi? Forse qualcuno dei lettori ha questonomenell’orecchio perché è proprio lui il grand commis che entra senza bussare nella stanza di Mussolini e che poi si inventa l’IRI, che negli anni Cinquanta crea quelmagistrale gioco di scatole cinesi – le Partecipazioni Statali – che, sia pure ridimensionato, continua a macinare argent anche oggi con punte di diamante che si chiamanoENI e ENEL. Unodei pilastri dell’Italia non ancora ufficialmente italiana è stato il settore della finanza e, al suo interno, quello delle assicurazioni che operavano e creavano argent quando ancora, nelle povere terre della Savoia, si tirava a campare con la vanga e l’aratro. E prima ancora che Cavour entrasse in scena, il mondo economico e finanziario era già pronto a raccogliere questa sfida. Quando, nel 1848, Milano decide di cacciare gli austriaci perché è la loro oppressiva presenza a impedire il decollo industriale, i dirigenti della Milano Assicurazioni sono tra i primi a salire sulle barricate. A Venezia, a fianco di Daniele Manin, è pronto a fare a schioppettate tutto lo stato maggiore delle Assicurazioni Generalimentre aTorino la RealeMutua di Assicurazioni e la Toro Assicurazioni non esitano a mettere mano al portafogli per finanziare un esercito sabaudo che, per battere gli austriaci, non ha nemmeno i soldi per comprarsi le cartucce.