ANDREA GRECO

Se Alberto Nagel dovesse fare un bilancio professionale del suo primo triennio da amministratore delegato, forse potrebbe accantonare il cauto pessimismo che ricorre nella sua forma mentis. Vero è che il suo gruzzolo in azioni Mediobanca s’è eroso di parecchi milioni, e che tutte le sue stock option sono rese inservibili dai tracolli della Borsa (benché l’istituto sbandi meno dei rivali). Ma avrà tempo e modo di rifarsi.
Tra metà 2008 e metà 2011 ha rafforzato il ruolo suo e del management che s’era formato sotto Vincenzo Maranghi, ha sciolto alcuni dei molti conflitti di interesse insiti nel modello originario (con oltre un migliaio di parti correlate), ha fatto evolvere la governance interna e quella delle partecipate strategiche Generali, Telecom e Rcs, ha fatto capolino nei principali paesi e mercati europei, ha tenuto la barra gestionale conservando redditività e patrimonio.
Se a questi meriti si aggiungono i demeriti esterni – perché l’algebra del potere, anche finanziario, è hobbesiana, e i limiti alla propria libertà sono le libertà altrui – l’impressione di rafforzamento aumenta: perché in tre anni sono cadute alcune statue e alcune colonne, intorno alla Mediobanca di Nagel.
Il maggiore azionista Unicredit ha perso un leader forte (Alessandro Profumo) e mediante due ricapitalizzazioni – con vista sulla terza – si è strategicamente indebolito come potere forte, pur non avendo fatto mancare il supporto al management di Piazzetta Cuccia.
Cesare Geronzi, già centro di potere in sé traghettato a Generali, dove meditava partite improprie sfruttando l’asse con Silvio Berlusconi (anch’egli azionista e pattista, anch’egli indebolito) e la leva dei 400 miliardi di masse del Leone, non c’è più, dopo il voto di sfiducia che in primavera Nagel ha ordito con altri soci forti dell’assicuratore.
I soci francesi guidati da Vincent Bolloré, il secondo bastione dell’azionariato Mediobanca, hanno sbandato per i profondi legami con Geronzi, e il blitz del finanziere bretone e di Groupama (sventato) su quel che resta dell’impero Ligresti.
Lo sfarinamento complessivo non è secondario, poiché da decenni l’unica banca d’affari italiana è palestra di ardimento di ogni potere forte del paese, che nei saloni austeri del palazzo ViscontiAimj si incrocia, coopera o sfida secondo il caso e la convenienza.
Nel nuovo patto al rinnovo per tre anni sul 43,29% delle azioni conteranno meno i rivali bancari – sono in uscita Santander, Commerzbank e Sal Oppenheim (acquisita da Deutsche Bank) – e salirà leggermente, come previsto, il peso dei soci francesi e di Diego Della Valle, imprenditore che ha uno stile meno paludato, ma che con Nagel e il presidente Renato Pagliaro ha buoni rapporti da anni, come si è visto anche nella primavera di liberazione triestina. Della Valle potrebbe anche entrare nel consiglio, al rinnovo il 28 ottobre e che avrà più indipendenti, più donne (per prepararsi alla legge sulle quote rosa, visto che Mediobanca con due donne su un cda che salirà a 22 posti nel 2013 si troverebbe fuorilegge) e soglie di età dei consiglieri. Un inedito, nel Paese per vecchi.
L’opera di miglioramento di alcuni aspetti perfettibili del salotto buono è stata possibile anche grazie alla conservazione del business e degli attivi in uno scenario dei più turbinosi. Nei conti di prossima pubblicazione dovrebbe confermarsi un trend di lieve aumento dei ricavi e degli utili, cui fa eco la resistenza del titolo ai crolli estivi dei listini.
A Piazza Affari, specie nell’agosto in cui tutto cadeva, Mediobanca ha denotato una stabilità che ha fatto gridare i più sospettosi alla scalata. Più probabilmente, si trattava degli arrotondamenti delle quote di Bolloré (salito dal 5% al 6%) e Della Valle (dallo 0,48% all’1,9%). In ogni caso, nell’ultimo semestre l’azione ha perso poco più del 20%, metà di tutte le blue chip bancarie italiane che nel frattempo hanno dimezzato la loro capitalizzazione, rendendo i multipli forse troppo ambiziosi rispetto alla concorrenza: quasi 13 volte gli utili 2010 per Mediobanca, anche in questo caso circa il doppio delle banche universali e popolari italiane.
Archiviati bilancio, patto e nuovo consiglio, i banchieri di Piazzetta Cuccia penseranno a sviluppare il business fino al 2014, in un ambiente facile per nessuno. A riguardo la dirigenza vede una positiva evoluzione della divisione imprese e mercati (Cib) internazionale, con la possibile apertura di nuove sedi nei turbopaesi Turchia e Cina, a partire da piccoli team locali come fatto in Spagna, Gran Bretagna, Francia, Germania.
Altre due direttrici di sviluppo saranno il credito al consumo – dove la controllata Compass vuole scalare dal 3° al 2° posto la classifica nazionale, anche con acquisizioni che osservatori dei mercati individuano nella senese Consum.it – e la raccolta conti di deposito; avere liquidità dai risparmiatori è sempre più prezioso, e le novità fiscali che riducono dal 27 al 20% la tassa sugli interessi di conto contribuirà all’obiettivo di rendere CheBanca! il primo mezzo di raccolta del gruppo in Italia.
Per le gestioni patrimoniali a marchio Cmb ed Esperia ci si attendono i frutti dei recenti sforzi di riorganizzazione. E una simile logica vale per il contributo agli utili delle partecipate strategiche Generali, Rcs e Telecom, che con l’appoggio dell’azionista hanno eliminato alcuni bizantinismi di governance, un po’ nello stile della merchant. Non per caso il ritornello di analisti e investitori è che «la Mediobanca dell’era Nagel e Pagliaro – come dice uno di loro – è soprattutto una storia borsistica di ristrutturazione della governance. Finora riuscita, ma il contesto esterno e alcune sfide aperte lasciano da completare l’opera».
Nei prossimi mesi, i banchi di prova della gestione potrebbero essere tre dossier caldi di clienti/amici. Il più vicino è la ricapitalizzazione di Bpm, con l’istituto a guidare un consorzio che teme alti rischi di inoptato e il fantasma di Matteo Arpe (l’ex). Poco dopo l’aumento potrebbe toccare a Unicredit, dove Nagel & C. sarebbero ancora sicuri advisor, e sono in gioco gli equilibri azionari (e manageriali) del primo socio.
Infine va trovata una “soluzione finale” per il management dei Ligresti, che ha scontentato mercato e creditori. Anche qui sono in ballo antichi legami, un miliardo di prestiti e quote rotonde dei patti Mediobanca e Rcs.