MADE IN ITALY VINCENTE Per una volta è proprio il caso di dire che la squadra italiana straccia sul campo i rivali Usa. E non solo, visto che il nostro team propone ed esporta il proprio know how nel resto del globo (Russia, Egitto, Albania, e Libano per iniziare). Certo fa un po’ effetto pensare che, questi campioni del made in Italy, siano i così tanto spesso vituperati servizi postali. Complice infatti la guida di Massimo Sarmi, rinnovata per ben tre mandati a partire dal 2002, Poste Italiane in poco meno di un decennio non solo è uscita dal pantano in cui le aziende statali spesso vivacchiavano, ma ha messo a segno utili in crescita per ben nove esercizi di fila e ha rinnovato la propria veste per poter proseguire la crescita. 
A fronte di uno storico business ormai decisamente demodé, Poste Italiane si è infatti reinvetata con attività ben più lucrative, dalle offerte tlc (non è un caso visto che lo stesso Sarmi era un alto dirigente di Telecom Italia), alle proposte di prodotti bancari (la prepagata Postepay), di investimeno e perfino assicurative utilizzando come leva gli oltre 14mila uffici sparsi in modo capillare su tutto il territorio nazionale oltre alla riconoscibilità del brand. E con successo, nonostante la liberalizzazione in atto dei servizi postali e l’esplosione del web. Tanto che prima del crollo dei mercati, quando ancora si ventilava l’ipotesi di Ipo, si era arrivati a parlare di una valorizzazione di Poste intorno ai 15 miliardi di euro (al momento tuttavia il 100% del gruppo in mano al ministero dell’Economia e delle Finanze secondo alcune stime vale 3,4 miliardi).

IL CONFRONTO. Tutt’altro scenario invece per la ben più nobile (in teoria) cugina nord americana, United States Postal Service, protagonista di film e telefilm che, nonostante una storia pluricentenaria e il riconosciuto ruolo di elemento unificatore della nazione, rischia di chiudere i battenti. E anche alla svelta. Se infatti non si provvederà entro fine mese a trovare una soluzione, legislativa, al nodo dei debiti in scadenza, la United State Postal Service, dichiarerà default. Al di là di un rosso atteso a fine esercizio a 9,2 miliardi di dollari, l’emergenza sono i 5,5 miliardi di dollari per pagare gli stipendi di settembre dei dipendenti. I piani lacrime e sangue che prevedono l’eliminazione delle consegne il sabato, la chiusura di ben 3.700 uffici e licenziamenti di massa (120.000 persone, quasi un quinto del totale), non basterebbero infatti ad arginare il problema. Colpa certo di internet che ha quasi eliminato la corrispondenza cartacea, mandando in pensione anticipata una serie di altri servizi redditizi (dai cataloghi ai bollettini). Ma non solo. Certo rispetto a soli cinque anni fa, dati alla mano, il business tradizionale è crollato: -22% il volume di spedizioni a circa 167 miliardi di invii che potrebbero scendere a 118 miliardi entro il 2020. Ma ad arrestare il percorso del gruppo è stata l’incapacità di adeguarsi ai tempi unita, è giusto dirlo, all’impossibilità di seguire le orme di Sarmi. «Senza un intervento del Governo, il default è inevitabile», ha recentemente dichiarato il direttore generale Patrick Donahoe che di fatto però si trova con le mani legate ad affrontare la crisi. Le Poste Usa infatti non possono aumentare le tasse di spedizione a un livello superiore all’inflazione e, a differenza delle Poste Italiane, non possono decidere di trasformarsi in operatore telefonico o aprire conti correnti per i loro clienti.
Peccato visto che un simile modello è invece risultato vincente per il gruppo guidato da Sarmi. Lo dicono i numeri. Poste Italiane infatti ha chiuso l’ultimo bilancio con un utile netto di 1,018 miliardi (+12,6% sul 2009), un utile operativo di 1,87 miliardi (+16,9%) e un giro d’affari di 21,8 miliardi (+8,7%). In particolare, ha precisato la società, lo slancio è venuto dai servizi assicurativi con una raccolta premi di 9,5 miliardi di euro (+ 34% rispetto all’esercizio precedente). Un trend proseguito anche nel primo semestre dell’anno. In calo i tradizionali servizi postali (-3,1%), in leggero rialzo i ricavi da conti correnti (2,6 miliardi, +1,7% sul 2009) grazie ai maggiori proventi derivanti dall’impiego della raccolta (+4,2%), che crescono sia per effetto dell’aumento del 3,5% della giacenza media (34,7 miliardi di euro del 2009 contro 35,9 miliardi di euro del 2010), sia per effetto della positiva gestione degli impieghi. Da sottolineare, poi, il significativo incremento del volume delle carte prepagate Postepay, che segna un +21,5% sul 2009, con 6,8 milioni di carte. 
Insomma una diversificaizone vincente che, un mese fa, ha portato Sarmi anche alla conquista del Mediocredito Centrale acquisito da Unicredit per 136 milioni di euro. Le Poste italiane sono ora a tutti gli effetti un conglomerato finanziario anche se, come previsto dai regolatori, le due realtà saranno mantenute indipendenti l’una dall’altra. Il prossimo passo dovrebbe essere, almeno nelle intenzioni iniziali, l’ingresso delle cooperative nel capitale della banca.