di Andrea Cabrini Class Cnbc

 

La sua idea di stringere un patto come partner ideale tra lo Stato e le compagnie assicurative, se non altro per il fardello di debito pubblico di cui si fanno carico, ha tenuto banco nel corso dell’Insurance Day di MF-Milano Finanza. In questa intervista, Enrico Cucchiani allarga l’analisi alla crisi economica che affligge l’Italia, l’Europa e l’intero mondo occidentale.

S&P e mercati, sostiene, hanno suonato la campanella per il nostro Paese: è la politica che si deve adeguare ai mercati e non viceversa. Occorrono riforme strutturali sia per ridurre il debito che per rilanciare l’economia.

Cucchiani è membro del board di Allianz e guida le attività del primo gruppo assicurativo mondiale in tre continenti (Europa, Africa, America latina), ed è presidente italiano del Foro italo-tedesco. Responsabile di aziende che rappresentano un autentico benchmark di performance, Cucchiani è anche acuto osservatore dell’economia: in uno scritto pubblicato a fine 2008 aveva anticipato che il debito sovrano sarebbe diventato il problema più rilevante e, prima dell’estate, quando il dibattito politico ancora si incentrava sulla riduzione delle tasse, aveva messo in guardia sull’esplosione degli spread.

Domanda. Dottor Cucchiani, come giudica il downgrade dell’Italia?

Risposta. Premetto che oggi ho seri dubbi sulla credibilità delle agenzie di rating: dovevano essere un sistema di allerta e invece si sono rivelate parte del problema. Ciò posto, sul downrating italiano l’analisi è più complessa. Da un lato il Paese vanta un rapporto ricchezza/pil tra i più elevati e può contare sul secondo sistema industriale d’Europa; dall’altro pesano in modo rilevante lo spread di 400 punti base, che sarebbe ancora più alto senza gli interventi della Bce, il crollo delle borse e le preoccupazioni di molti leader internazionali della politica e della business community. È in questo contesto che S&P ha suonato la sua campanella.

D.Quanto opportuna?

R. Opportuna o meno, sta all’Italia cogliere la rilevanza del segnale. Nel breve termine i mercati si possono anche sbagliare, ma difficilmente si sbagliano nel medio-lungo termine; e comunque nessuno può sconfiggerli: non lo seppero fare i fratelli Hunt, non ci riescono gli hedge fund, non possono farlo gli Stati. I mercati rappresentano un vincolo per i policy maker e sono un termometro che non può essere ignorato: essi non votano ogni cinque anni ma ogni giorno, anzi, ogni istante. Oggi siamo nell’emergenza ed è la politica che si deve adeguare, cambiando decisamente passo, pena il crollo dell’economia, del sistema bancario, della struttura industriale. Atene docet.

D.I problemi attuali non sono solo italiani o dei cosiddetti Pigs. Anche l’America è stata tagliata.

R. È vero, ma la reazione dei mercati è stata ben diversa: i tassi americani, a differenza dei nostri, sono scesi perché gli investimenti in titoli del Tesoro Usa sono parsi più sicuri. Il punto è che l’economia reale è estremamente interrelata e le economie occidentali stanno attraversando una crisi peggiore di quella del 2008. L’Italia, il cui debito supera quello di Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo messi insieme, è l’anello più debole e rischia di creare seri problemi all’euro. Ciò contagerebbe pesantemente anche l’economia americana: per questo tutti ci guardano con estrema attenzione. Il problema complessivo sarebbe certamente risolvibile con un’azione energica e coordinata; purtroppo stiamo assistendo all’esplosione delle divisioni anche all’interno della maggioranza.

D.Ciò però accade anche in Europa e non solo.

R. Vero. E le divisioni transatlantiche sono forse le più incomprensibili visto che anche il segretario al Tesoro americano, Timothy Geithner, è sceso in campo dicendosi fortemente preoccupato. Ma queste divisioni sono un grave errore: nell’emergenza non ci si divide, ci si mette insieme. Abbiamo bisogno di coesione e convergenza a livello nazionale, di coesione e convergenza in Europa, di coesione e convergenza tra le due sponde atlantiche che rappresentano mondi, culture ed economie con radici e interessi comuni. Occorrono leader capaci di costruire queste convergenze e di far evolvere l’Europa da unione monetaria a vera unione economica.

D.La Germania, però, non sembra tanto di questo avviso.

R. Non è vero: la business community tedesca e in misura crescente il ceto politico sono convinti della necessità di preservare l’integrità dell’euro e di fare un salto di qualità nell’integrazione europea. Ma in un mondo di cicale e di formiche, nessuno è disposto a fare la parte della formica per assicurare la dolce vita della cicala. Pertanto, sta a noi italiani dimostrare, nei fatti, un vero commitment all’Europa e all’euro. Non farlo significherebbe assumersi la responsabilità di far precipitare l’economia nel baratro e nessuno ce lo perdonerebbe.

D.Dunque, a suo modo di vedere, la manovra appena varata non conta nulla?

R. No, non lo penso. La manovra è seria ma tardiva e caratterizzata da tentennamenti e nel contesto attuale (vedasi il downgrade, lo spread, il rapporto del Fmi, il crollo borsistico) è giudicata insoddisfacente: il pareggio di bilancio viene considerato un’aspirazione e il risanamento un miraggio. Giusto o sbagliato che sia, questo è il verdetto ed è supportato dalla matematica.

D.Che cosa fare allora?

R. Occorre varare provvedimenti che riducano strutturalmente il debito e rilancino strutturalmente l’economia; solo così si invertiranno le aspettative come seppe fare il nostro governo al tempo dell’ingresso nell’euro.

D.Suggerimenti lodevoli, i suoi. Ma forse un po’ generici.

R. Allora sarò più esplicito. Per ridurre strutturalmente il debito penso a provvedimenti quali la privatizzazione di quel che è ancora privatizzabile; all’innalzamento dell’età pensionabile: perché i tedeschi, che vanno in pensione a 69 anni, dovrebbero pagare per chi va in pensione a 58? E poi all’abolizione delle province e alla razionalizzazione della macchina burocratica che non solo è un costo e rallenta l’attività economica ma è anche un terreno fertile per la corruzione.

D.E sul fronte delle riforme strutturali per lo sviluppo?

R. Due numeri fotografano i problemi dello sviluppo: l’Italia si colloca al 43esimo posto al mondo nelle classifiche che misurano la competitività e all’87esimo in quelle sulla libertà economica. Con queste prospettive, chi investe in Italia? Non gli stranieri, che da anni ci snobbano (lo stock dell’investimento estero diretto è un quarto di quello affluito in Francia) e ora stanno disinvestendo a eccezione di chi ha individuato alcuni gioielli; ma non investono nemmeno gli italiani che ormai da anni delocalizzano in Paesi più competitivi e più business friendly. Occorre quindi agire sulle leve che favoriscono la competitività, il recupero di produttività, quindi dei salari, e la liberalizzazione economica.

D.Per un programma così ambizioso ci vorrebbe però il ricorso alle urne.

R. Assolutamente no. Chi lo pensa non si rende conto che il tempo a disposizione è estremamente esiguo, il mercato non tollererebbe altri sei-nove mesi di contesa elettorale, di tatticismi, di incertezze, di inazione, con la prospettiva, a conclusione del processo elettorale, di ritrovarsi con un Paese forse ancora più diviso. Spirano forti venti di cambiamento: c’è chi rischia di essere travolto, chi erige barriere inutili e chi invece ne approfitta per costruire mulini a vento. Per senso di responsabilità verso i nostri figli e i nostri partner occidentali è giunta l’ora di costruire i mulini. Qui e ora. (riproduzione riservata).