Secondo uno studio pubblicato da Allianz Trade, le ondate di calore estreme potrebbero ridurre il prodotto interno lordo (PIL) dell’Europa di 0,5 punti percentuali nel 2025. L’impatto, già evidente in Cina e negli Stati Uniti, illustra la crescente vulnerabilità delle economie ai rischi climatici.
“Secondo il Copernicus Climate Change Service/ECMWF, il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato, mentre maggio 2025 è stato il secondo maggio più caldo a livello globale”, ricordano gli autori dello studio, osservando che l’estate del 2025 sarà anche segnata dalla persistente cupola di calore sull’Europa occidentale e centrale e sugli Stati Uniti.
Gli esperti di Allianz Trade dipingono un quadro preoccupante: la Germania perderebbe 0,1 punti di Pil e la Francia 0,3 punti, mentre Spagna, Italia e Grecia si avvicinerebbero a una contrazione di un punto. Negli Stati Uniti, il calo è stimato a 0,6 punti e in Cina a 1 punto, per una perdita complessiva di 0,6 punti a livello mondiale. Uno shock che i ricercatori hanno messo in prospettiva: un solo giorno sopra i 32 °C equivale economicamente a una mezza giornata di sciopero.
Ciò che poteva sembrare eccezionale ora tende a diventare la regola. “Il cambiamento climatico sta aumentando la frequenza e l’intensità delle ondate di calore estreme, rendendo le ondate di calore, la siccità e gli incendi la ‘nuova normalità’, con notevoli conseguenze economiche”, afferma lo studio.
Questi fenomeni, oltre a incidere sulla salute delle popolazioni e della fauna selvatica, indeboliscono anche la produttività, le infrastrutture e le finanze pubbliche. Le grandi economie potrebbero essere in grado di attutire parte del colpo attraverso la riallocazione della produzione o i pacchetti di sostegno, ma i paesi più piccoli e meno diversificati e le economie in via di sviluppo, ad esempio in Africa e nell’Asia meridionale, subiscono conseguenze molto più gravi. Tuttavia, la relazione tra disastri naturali e crescita non è lineare: un disastro raro ed estremo può ridurre la crescita del 7%, mentre un evento più frequente ma meno grave porta a perdite più contenute, nell’ordine dello 0,5%.
Oltre alle perdite di produzione e alla distruzione delle scorte, uno degli effetti più tangibili è la produttività. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che lo stress da calore potrebbe ridurre il numero di ore lavorative globali del 2,2% entro la fine del decennio, l’equivalente di 80 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Già nel 2021 erano state perse quasi 470 miliardi di ore di lavoro, con un aumento del 37% rispetto agli anni ’90. Le perdite sono più gravi nei paesi in via di sviluppo, dove l’aria condizionata e le infrastrutture adeguate rimangono inaccessibili a una parte della popolazione. A 32 °C, la capacità di lavoro diminuisce del 40%; a 38 °C, collassa di due terzi. L’impatto si riflette direttamente sui guadagni: un solo giorno in più al di sopra di questa soglia riduce lo stipendio medio annuo dello 0,04%, ovvero quasi il 2% del reddito settimanale negli Stati Uniti.
Alcuni studi suggeriscono un effetto di compensazione parziale. La Banca centrale europea ha osservato un rimbalzo dell’attività nell’industria e nei servizi, in grado di assorbire tra il 30 e il 50% delle perdite iniziali. Ma questo fenomeno non riguarda l’agricoltura o le infrastrutture, dove i danni rimangono duraturi.
Di fronte a queste prospettive, gli esperti insistono sulla necessità di attuare un mix di misure immediate e trasformazioni strutturali. A breve termine, informare la popolazione, adeguare l’orario di lavoro o aprire spazi climatizzati può ridurre gli effetti delle ondate di calore. A lungo termine preparare le città ai cambiamenti climatici, ad esempio attraverso l’inverdimento, e adattare i luoghi di lavoro, le infrastrutture e l’orario di lavoro per preservare la produttività.