VEGAS INTERVIENE ALL’INIZIATIVA PER IL RILANCIO DEL MERCATO FINANZIARIO NAZIONALE
di Giuseppe Vegas
Che gli italiani, o per lo meno quelli che hanno già qualche esperienza delle difficoltà della vita, siano un popolo di risparmiatori è noto. E non lo sappiamo solo grazie alle parole di Luigi Einaudi: «Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli». Lo possiamo constatare ancor’oggi, in una fase storica che ha visto il susseguirsi a una crisi finanziaria, una pandemia, una guerra e il ritorno dell’inflazione.

Le cosiddette classi medie hanno dimostrato di esserci ancora e di rappresentare, magari con qualche incrinatura, la colonna vertebrale della società. Non saremo più il Paese col maggior tasso di risparmio al mondo, ma il denaro messo da parte dagli italiani continua a crescere anche in questi anni difficili. La somma risparmiata supera il livello del pil e del debito pubblico.

È interessante domandarsi il perché. In altre nazioni ben più ricche, come ad esempio gli Stati Uniti, ciò non accade. Gli americani preferiscono indebitarsi. Noi no. La risposta è semplice. Perché noi non ci fidiamo dello Stato. È dall’epoca delle leges frumentarie del Gracchi, circa centocinquanta anni prima di Cristo, che si usa procedere a distribuzioni gratuite di denaro o altri beni alla cittadinanza senza disporre delle necessarie risorse e che prima o poi qualcuno sarà chiamato a tappare i buchi. E sappiamo che nei momenti difficili della vita saremo soli. Mettere al mondo figli è diventato un atto di eroismo, così come farli studiare; la vecchiaia e le malattie vanno affrontate con strumenti più efficaci delle pensioni medie o della pur buona sanità pubblica, l’inflazione è un mostro che impaurisce non soltanto i meno abbienti. Il tutto in una situazione in cui molti pesi – si pensi solo al debito pubblico – sono posti a carico di generazioni future, che hanno già non poche difficoltà a disporre di redditi paragonabili a quelli dei genitori. Il tutto in una fase in cui la regolamentazione delle finanze pubbliche europee va già prefigurando una sorta di bail-in dei piani di rientro dall’eccesso di debito pubblico mediante una chiamata a farvi fronte da parte della ricchezza privata. Logica conseguenza è che ciascuno, nei limiti delle proprie possibilità cerchi di procurarsi un ombrello sotto cui riparare se stesso e i propri discendenti.

Se questa è la realtà, logica conseguenza è che la tutela del sudato risparmio dovrebbe essere la stella polare dell’azione di ogni governo. E non solo perché è scritto nella Costituzione.

Ma non è un obiettivo che può essere raggiunto solo incanalandolo verso il debito pubblico. Perché l’imposta sulle rendite finanziarie dei Bot è del 12,5 per cento e quella sugli altri strumenti del 26 e non allo stesso livello dei titoli di Stato? Come dicevano i vecchi contadini, attenzione a prestare denaro a chi ha già debiti!

Se si vuole davvero modernizzare il Paese, senza cullarsi nell’illusione dei salvifici effetti di interventi finanziati dall’esterno prevalentemente a debito, occorre fare di tutto per attrarre investimenti verso i settori produttivi.

Il che significa rendere più facile investire e non penalizzare il risparmio che viene indirizzato allo sviluppo. Significa in primo luogo modernizzare la pubblica amministrazione (in Gran Bretagna, e non solo, si può fondare una società on line e da noi no) e dotarsi di un sistema giudiziario più simpatetico con le esigenze delle imprese. Ma soprattutto occorre riconsiderare il modello culturale della nostra politica fiscale.

Oggi invece si vagheggia una riforma fiscale redatta guardando nel retrovisore. Si propone qualche modesta variazione delle aliquote e degli scaglioni Irpef, che, quando non producesse un maggior onere per i contribuenti medi, non potrebbe certo essere in grado di modificare le propensioni dei consumatori. E comunque riguarderebbe sostanzialmente solo dipendenti e pensionati: è come se non esistesse tutto il mondo moderno della ricchezza desumibile dal consumo.

Ci si indigna perché in altre realtà, anche europee, la tassazione dei redditi mobiliari è assai inferiore a quella italiana e ci si straccia attoniti le vesti tutte le volte che una nostra impresa trasferisce la propria sede all’estero, non in un paradiso fiscale, ma a pochi chilometri dai nostri confini. Viviamo in un momento molto difficile, non sarebbe ora di abbandonare quell’approccio ipocrita nel quale ci crogioliamo da troppo tempo? (riproduzione riservata)

*già presidente Consob e viceministro dell’Economia
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