L’Esma ha emanato una serie di indicazioni per migliorare trasparenza
ed equità delle commissioni di performance. Nell’attesa di capire se e in che misura saranno recepite in Italia, ecco come muoversi per cercare di contenere le spese
di Paola Valentini
Le commissioni di performance dei fondi comuni restano ancora un’area poco trasparente e difficile da decifrare perché le società di gestione procedono in ordine sparso sulle modalità di applicazione anche per via di una normativa europea che, malgrado gli sforzi fatti negli ultimi anni, lascia ancora margini di manovra. Si tratta di costi prelevati in base ai risultati conseguiti dal fondo, si aggiungono alle commissioni di gestione annue (che sono invece fisse e vanno per la maggior parte a remunerare la rete di consulenza) e alle eventuali commissioni di ingresso (che si possono negoziare e che vanno anche esse ai collocatori). La percentuale trattenuta dalla performance può basarsi sull’incremento del valore della quota rispetto al valore precedente, oppure rispetto ad un parametro di riferimento (benchmark). L’ultima authority, in ordine di tempo, intervenuta è l’Esma, l’autorità di sorveglianza dei mercati finanziari europei, che lo scorso 3 aprile ha emanato, dopo una consultazione durata circa nove mesi con le varie autorità e associazioni dell’industria del risparmio gestito, le Linee guida sulle commissioni di performance nei fondi comuni. Sono norme elaborate tenendo in considerazione anche le disposizioni elaborate sul tema nel 2016 da Iosco (l’Organizzazione internazionale delle commissioni di vigilanza sui mercati finanziari).

Le Linee guida dell’Esma mirano ad armonizzare le modalità in cui le società di gestione addebitano commissioni di performance agli investitori al dettaglio, nonché le circostanze in cui possono essere applicate. Queste norme puntano «a superare l’assenza di una disciplina europea in tema di commissioni di incentivo e a stabilire dei principi di convergenza nelle prassi di vigilanza nazionali», afferma Assogestioni che è stata coinvolta nella fase di consultazione, «garantendo standard comuni di disclosure, dal momento che le prassi attuali variano tra i diversi Stati membri dell’Ue», come si legge nella nota di commento alla consultazione diramata dall’Esma. Assogestioni ricorda che circa il 67% dei fondi domiciliati in Italia ha una struttura di pricing che contempla performance fee.

Nel Paese, già nel 2005 la Banca d’Italia ha introdotto una normativa più stringente rispetto a quella di Stati come ad esempio Irlanda o Lussemburgo. Non a caso questa mancata armonizzazione ha condizionato le scelte di localizzazione di diverse sgr italiane che hanno lanciato fondi di diritto irlandese o lussemburghese. C’è da dire che le Linee guida Esma non sono vincolanti. I singoli Paesi Ue possono adeguarsi alla normativa, in tutto o in parte, oppure dichiarare il motivo per cui non intendono farlo. Per comunicare la propria decisione gli Stati avranno tempo due mesi dalla traduzione delle Linee guida nelle lingue dei singoli Stati. Solitamente sono necessari dai 4 ai 12 mesi per la versione. Dal varo di aprile non sono passati nemmeno quattro mesi, pochi, quindi per ora le disposizioni Esma restano in sospeso. In Italia Bankitalia e Consob sono le due autorità che dovranno esprimersi ed eventualmente recepire le indicazioni. Ma c’è già chi solleva perplessità: nel mirino sarebbe finita la norma dell’Esma in cui viene suggerito un periodo di cinque anni per il recupero delle perdite eventuali del fondo o delle performance inferiori al benchmark prima di applicare le commissioni di performance (si veda box). L’orientamento trapelato fino a prima dell’emanazione del documento, era di estendere l’arco temporale a un anno. La posizione italiana riflette nei fatti quella dell’Assogestioni francese, che tuttavia ha fatto un passo più forte: qualche settimana fa ha emesso un comunicato con cui stigmatizzava in modo netto il passaggio del documento Esma sui cinque anni e ha chiesto ufficialmente ai regolatori transalpini di non allinearsi a questa indicazione. Dopotutto, i regulator nazionali non sono tenuti ad applicare alla lettera le disposizioni dell’Esma, che di fatto sono indicazioni che ciascuna unità nazionale può tradurre e smussare come meglio ritiene, benché resti molto difficile pensare che un’authority nazionale possa distanziarsi eccessivamente da queste ultime. Secondo Assogestioni «per mantenere l’allineamento degli interessi dei gestori a quelli degli investitori è necessario garantire flessibilità nella combinazione dei diversi elementi che concorrono a determinare i modelli di remunerazione delle sgr».

Un modo per capire quanto gli interessi delle società di gestione e distribuzione siano vicini quelli dei risparmiatori è analizzare come vengono applicate le commissioni di performance. Il tema del meccanismo di calcolo è un aspetto fondamentale perché ha un impatto rilevante sul conto pagato dagli investitori. I quali, spesso, di fronte a strutture di calcolo non immediatamente percepibili fanno fatica a capire quanto sborsano. Ad esempio, secondo un’analisi di Ubs sui fondi domiciliati in Lussemburgo, Banca Generali prevede le commissioni di performance su base mensile senza high watermark o benchmark per i comparti Bg Selection, mentre quelli della famiglia Lux Im le calcolano su base giornaliera con un high water mark a 12 mesi. Intanto Azimut e Banca Mediolanum che fino al 2019 prevedevano commissioni mensili sui propri fondi di diritto estero, all’inizio dello scorso anno hanno deciso di adottare una metodologia di calcolo annuale, allineandosi alle raccomandazioni di Iosco. Ma «per compensare il calo atteso delle commissioni di performance come risultato del nuovo metodo, entrambe hanno aumentato le loro commissioni di gestione dello 0,5%», spiega Ubs, ricordando però che mentre Banca Mediolanum ha fatto contemporaneamente questi ritocchi, Azimut invece ha aumentato le commissioni di gestione ma non è ancora passata per tutti i fondi alla nuova struttura di incentivi. «L’alta frequenza del prelievo fa sì che si moltiplichino le occasioni di pagamento», spiegano da AcomeA.

Non a caso «la normativa della Banca d’Italia, cui sono soggetti i fondi di diritto italiano, impone il pagamento delle commissioni di performance su intervalli non inferiori a 12 mesi». Un altro elemento da ricercare in un fondo di investimento sono commissioni di performance calcolate secondo il metodo dell’high watermark (senza reset) perché questo «garantisce che paghino effettivamente le commissioni quei clienti che hanno beneficato della buona performance. Nella pratica, si valuta l’andamento del fondo giornalmente e soltanto se questo supera il massimo mai raggiunto fino a quel momento si trattiene una quota di quel rendimento a titolo di commissione di performance», prosegue AcomeA. Il reset è il periodo di tempo all’interno del quale si calcola la commissione e più è breve e più si rischia di pagare commissioni senza avere un vero valore aggiunto.

Intanto, nell’attesa di capire come le indicazioni Esma saranno adottate, il dibattito tra chi è contro e chi è a favore delle fee di performance è stato riacceso in Italia da Fineco, perché la sua società irlandese di gestione del risparmio, Fineco Asset Management (Fam) a inizio luglio ha lanciato il bollino «No Performance Fees», per sensibilizzare il settore sull’impatto di queste voci di costo sulla sostenibilità del business e sulla relazione con il cliente. L’offerta di Fam si compone di 102 fondi e la società non applica commissioni di performance su nessuna delle soluzioni gestite. I prodotti vengono distribuiti tramite la rete di consulenti e online sulla piattaforma di Fineco, dove competono con oltre 6.500 prodotti finanziari realizzati da circa 70 case di gestione internazionali, queste ultime possono autonomamente decidere di applicare fee di incentivo che sono trattenute dalle stesse. In particolare, ricorda Fineco, i regulator internazionali sono intervenuti più volte sul tema delle performance fee, indicando la necessità di selezionare un benchmark adeguato con la tipologia di fondo e scoraggiando per esempio l’abitudine di utilizzare un tasso interbancario come riferimento per un fondo azionario. Un secondo punto è l’orizzonte temporale considerato per l’applicazione delle performance fee: l’Esma identifica quello corretto in cinque anni ma sul mercato italiano c’è anche chi utilizza periodi inferiori persino all’anno solare.

«Le buone pratiche infine impongono l’uso del sistema dell’high-water mark e suggeriscono di diminuire il peso delle commissioni di gestione in presenza di quelle di performance», dice Fabio Melisso, ad di Fineco Am. In sintesi, Fam non è contraria a priori ai giusti principi per cui sono state introdotte. «Sul mercato, però, non tutti gli operatori rispettano questi principi, applicando strutture che garantiscono maggiori entrate ma rischiano al contempo di gravare interamente su clienti e consulenti», dice Melisso. «Il costo infatti l’unico elemento che gli investitori possono controllare, a differenza delle condizioni dei mercati finanziari. I bassi costi, in particolare, si traducono in una minore erosione dei rendimenti, specie nel lungo periodo», afferma Simone Rosti, responsabile di Vanguard per l’Italia. Massimo Doris, numero uno di Banca Mediolanum, non è d’accordo con la posizione di Fam: «Condivido che le commissioni in Italia debbano scendere, ma che sia il tema principale no».

Anche Luca Valaguzza, co-fondatore di Euclidea, società di gestione digitale che nelle sue linee patrimoniali non prevede commissioni di performance, prende posizione nel dibattito dopo l’iniziativa di Fineco: «Sulle commissioni di performance bisognerebbe fare educazione finanziaria, non c’è una verità assoluta, bisogna fare capire al risparmiatore cosa paga». Secondo Valaguzza «ha senso applicare una commissione di performance nei fondi a rendimento assoluto perché qui il lavoro del money manager, e lo dico da gestore per anni di fondi hedge, è più complesso rispetto a quello nei fondi con benchmark a patto che ci sia un calcolo delle commissioni corretto, e Banca d’Italia è chiara su questo fronte; deve esserci un orizzonte congruo, non un mese, una clausola di high watermark per far sì che il cliente paghi solo per le performance di cui beneficia non per i movimenti mensili e soprattutto qualora ci fosse un benchmark deve essere coerente, abbiamo visto commissioni legate al superamento di un indice come Euribor, che oggi è a zero».

Valaguzza ha iniziato la sua carriera negli anni 90 in Finanza & Futuro: «a quell’epoca non esistevano commissioni di performance, ma soltanto, accanto a quelle di gestione, le fee di ingresso e d’uscita, poi negli anni 2000 sono arrivate anche in Italia sulla scia degli hedge fund anglosassoni che a quell’epoca si stavano sviluppando. Certo, una società di gestione che rinuncia alle commissioni di performance fa più fatica a raggiungere una forte crescita ma ha una sostenibilità economica che non dipende dai mercati». Sempre dagli Usa arriva un altro modello che punta ad arginare l’avanzata di Etf e fondi passivi a basso costo e le nuove tecnologie che a loro volta mettono pressione sulle commissioni. Un segnale forte in questo senso proviene da Fidelity Investments, colosso dell’asset management da sempre noto per la sua gestione attiva. Dopo aver annunciato una revisione della propria politica di commissioni negli Usa, un paio di anni fa anche Fidelity International, il braccio globale della casa di gestione, ha rivisto la politica sulle commissioni di alcuni comparti sul mercato europeo, lanciando per questi una nuova classe dove, invece che far pagare la tipica commissione di gestione in percentuale fissa, l’ha resa in parte variabile e legata alla performance del fondo. Il problema infatti è che troppo spesso fondi con rendimenti bassi applicano comunque alti costi prelevando le commissioni di gestione dal patrimonio, indipendentemente dal loro andamento. In generale, tranne poche eccezioni, Fidelity non applica commissioni di performance. Peraltro, ha concluso Doris, «alla fine conta il ritorno finale dell’investimento del cliente». (riproduzione riservata)
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