Ivass ha aperto il cantiere per riformare le unit linked e fare spazio ai pir. Ma è anche l’occasione per riportare in Italia i 6 miliardi
di chi, in questi anni, ha scelto di andare in Irlanda e in Lussemburgo

di Anna Messia
Sfidare Paesi come l’Irlanda e il Lussemburgo sul fronte fiscale è un’impresa impossibile senza l’intervento del legislatore. Ma Ivass è pronta a fare quanto di sua competenza per rendere più competitive le polizze di diritto italiano, tenendo ferme trasparenza e sicurezza per i risparmiatori. Il cantiere per la maxi riforma del prodotti Vita, come annunciato dal presidente dell’Ivass e direttore generale della Banca d’Italia, Daniele Franco, è aperto. Si parte dalle unit linked e il primo obiettivo sarà rivedere i vincoli dei cosiddetti pir assicurativi, penalizzanti rispetto ad altri strumenti. Ma non solo. A questo punto c’ è spazio per una riforma più profonda visto che la normativa che regola questi strumenti risale al 2002 e nel frattempo le unit linked hanno avuto spesso una «deriva» estera. Si tratta di prodotti che come sottostanti hanno fondi comuni, ma non solo. Con il cappello assicurativo (e con i conseguenti benefici di impignorabilità, insequestrabilità ed esclusione dall’asse ereditario) questi strumenti possono funzionare di fatto come una gestione patrimoniale, specie, appunto, se creati fuori dai confini nazionali. Una questione finita anche davanti ai tribunali che, in più di qualche caso, ne hanno eccepito la natura assicurativa. Nel frattempo però molti big assicurativi italiani hanno deciso di aprire società a Dublino o in Lussemburgo per creare polizze unit vendute poi di fatto esclusivamente in Italia ma uscendo fuori dai radar dell’istituto visto che i controlli spettano al Paese d’origine, anche sul fronte dei costi applicati. I numeri li ha forniti l’Ivass stessa nell’ultima relazione annuale sul 2019. Dalle analisi dell’istituto emerge che le imprese di proprietà estera nel 2018 (ultimi dati disponibili) hanno registratouna raccolta diretta Vita in Italia di 52,5 miliardi rispetto ai 133 totali. Un mercato aperto agli operatori esteri, quindi, mentre le imprese italiane intercettano i restanti 69, 5 miliardi di premi.

Ma di questi, 5,9 miliardi provengono da compagnie estere controllate da soggetti italiani, che hanno aperto appunto sedi in Irlanda o in Lussemburgo per creare index e soprattutto unit linked. Ivass guarda proprio a questi 6 miliardi, con la speranza di riportarne una buona fetta in Italia anche se non sarà facile. Il vantaggio principale di operare in questi Paesi è di natura fiscale, considerato che il tax rate risulta decisamente più contenuto rispetto a quanto prelevato in Italia. Materia su cui la competenza è però esclusivamente del legislatore che potrebbe per esempio chiedere alle assicurazioni che incassano dividendi dalle controllate estere di pagare all’Italia la differenza d’imposta rispetto all’Irlanda o al Lussemburgo, con un credito d’imposta indiretto. In questo modo, la questione verrebbe risolta alla radice, ma non c’è solo questo tema. All’estero i vincoli d’investimento, per esempio in prodotti illiquidi, sono più bassi dell’Italia e la revisione delle unit potrà essere l’occasione per ampliare il sottostante nel quale possono investire i prodotti italiani. Anche questo un argomento scivoloso perché sull’altro piatto della bilancia c’è la sicurezza dei risparmiatori che l’Ivass intende ovviamente mettere al primo posto. (riproduzione riservata)

Agrusti, sulle tradizionali è il momento dei gestori attivi
Anche le gestioni separate, le cosiddette polizze vita tradizionali, sono finite nel cantiere di riforma dell’Ivass. Già nel 2018 l’Istituto ha introdotto una serie di novità per queste polizze per consentire alle compagnie di offrire gestioni separate appetibili anche in un contesto di bassi tassi d’interesse. Perché in questo caso in ballo c’è la polizza vita per definizione, che protegge gli assicurati dalle oscillazioni dei mercati e lo strumento avviato dall’authority è stato quello dello spalma-plusvalenze: un meccanismo che ha consentito alle compagnie di accantonare le plusvalenze nette realizzate all’interno delle gestioni separate facendole confluire in un fondo utili, senza l’obbligo di doverle distribuire anno per anno. «Un intervento che ha consentito alle compagnie di effettuare una gestione più attiva di questi prodotti e di non limitarsi ad acquistare semplicemente titoli governativi», osserva Raffaele Agrusti, ex direttore finanziario di Generali oltre che della Rai e ad di Itas, ora in Propensione, società di intermediazione assicurativa online. Perché le compagnie hanno potuto vendere i titoli per incassare le plusvalenze «e riutilizzare le liquidità per nuovi investimenti», aggiunge il manager che sottolinea come anche nel settore assicurativo le commissioni debbano essere motivate da una gestione attiva da parte della compagnia. L’intervento del 2018 ha però riguardato esclusivamente le nuove polizze, mentre ora la discussione aperta da Ivass con il settore riguarda anche i vecchi prodotti che al momento hanno in pancia plusvalenze complessive di circa 40 miliardi. Eventualmente riconoscendo il diritto di recesso agli assicurati. Riguardo al fondo plusvalenze sarebbe anche utile aprire un dibattito per eventuali ricadute sul fronte Solvency II, replicando in parte quanto fatto dalle compagnie tedesche, aggiunge Agrusti. «In Germania il 50% degli utili accantonati in un’apposita riserva tecnica vengono computati come patrimonio di vigilanza, aumentando il Solvency II delle imprese», spiega il manager, «anche il fondo italiano plusvalenze, già oggi efficiente ai fini del calcolo del margine di solvibilità potrebbe migliorare ulteriormente la sua efficacia a questi fini con opportuni aggiustamenti regolamentari». Questione che dovrebbe essere portata davanti alle autorità europee che proprio in queste settimane stanno affrontando il tema della riforma di Solvency II. (riproduzione riservata)

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