di Dario Ferrara
La palestra non è gestita da una vera associazione sportiva dilettantistica e dunque deve pagare i premi Inail: nell’attività di fitness compiuta nei locali si rischiano comunque infortuni, che vanno assicurati come in una qualunque azienda. Specialmente quando le lezioni si limitano alla cura dell’esercizio fisico, che può essere gestita «anche in forma spiccatamente commerciale», per ottenere le agevolazioni tributarie e le altre facilitazioni l’assenza del fine di lucro deve emergere in modo netto, provando che l’attività sia svolta solo ad appartenenti all’associazione. Altrimenti ne rispondono il presidente e il vice presidente della finta Asd. È quanto emerge dall’ordinanza 17790/20, pubblicata il 26 agosto dalla sezione lavoro della Cassazione.

Diventa definitivo il rigetto dell’opposizione contro il pagamento del premio che l’Inail pretende dal numero uno della struttura e dal suo alter ego. E ciò perché il socio che ha compiti operativi e percepisce un compenso rientra nell’ipotesi ex articolo 4 numero 7 del dpr 1124/65: vanno infatti assimilate alle società di fatto le associazioni non riconosciute che gestiscono un’attività mantenendosi con le quote degli associati. Il punto è che si rientra nelle esenzioni e nelle facilitazioni previste per incentivare lo sport dilettantistico soltanto quando l’attività viene svolta con modalità tali da escludere l’assenza di interessi economici. Il tutto al di là della veste giuridica formalmente assunta dall’ente e dell’affiliazione alle federazioni sportive del Coni, che rappresenta un dato del tutto estrinseco e neutrale rispetto al fine di guadagno. Nel caso in esame, invece, è lo stesso presidente dell’associazione che parla agli ispettori Inail di «clienti» riferendosi agli utenti della palestra.

Il che rende del tutto irrilevante lo statuto dell’associazione laddove definisce l’attività senza fine di lucro, mentre è proprio l’atto costitutivo a fare riferimento a proventi derivanti da attività economiche.

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