BlackRock, Vanguard e State Street gestiscono ben 14 mila miliardi di dollari. Nel mondo finanziario nessuno ha mai avuto tanto potere. E cosi l’antitrust Usa ha cominciato a indagare
di Vincenzo Beltrani

Galeotto è stato uno studio proveniente direttamente dalla più prestigiosa delle istituzioni universitarie della Ivy League. Esattamente dalla Harvard Law School, dove due accademici considerati tra i massimi esperti in corporate governance negli Usa, ovvero Lucian Bebchulk e Scott Hirst, hanno dato alla luce uno studio dal titolo inequivocabilmente allarmante ma esaustivo: The Specter of Giant Three. Chi siano i tre spettri, per altro molto concreti, che si aggirano non per l’Europa, come quello marxiano del comunismo, ma nell’intero universo finanziario si intuisce limitandosi alla titolazione, anche perché oggetto di un dibattito rovente che anima da inizio d’anno esperti e media economici anglosassoni: BlackRock, Vanguard e, seppure divisa da alcune lunghezze, State Street Global Advisor. Tre colossi che insieme significano 14 trillion di asset in gestione. Che nel linguaggio parlato corrente significano 14 mila miliardi di dollari.

La preoccupazione dei due giuristi statunitensi è naturalmente concentrata sulla governance societaria. Ad oggi i Tre Giganti si trovano a controllare il linea teorica 4 azioni su 10 delle principali corporation statunitensi. Con un potere d’influenza assolutamente senza pari nella storia della finanza a stelle e strisce. Tanto da suscitare le occhiute attenzioni della Federal Trade Commission che già sospetta pericolose derive in tema di antitrust e la stesso Dipartimento di Giustizia Usa. Ai quali si aggiunge dall’altra parte dell’Atlantico le attenzioni della Commissione Antitrust dell’Unione Europea. Non si tratta però solo di sottili questioni giuridiche da confinare in aule universitarie seppur prestigiose.
Il paper di Harvard ha il merito di fotografare, dati alla mano, la crescita esponenziale che soprattutto BlackRock e Vanguard andranno a esercitare nei prossimi anni negli assetti finanziari ad oggi conosciuti, innescando un cambio di paradigma globale di cui già oggi è possibile prevedere gli effetti. Gli accademici di Harvard, dati alla mano, hanno calcolato che le masse gestite di questi giganti, con il relativo potere di rappresentanza che ne consegue, sono destinati a incrementarsi rispettivamente del 34% nei prossimi dieci anni e del 41% calcolando un arco temporale di un ventennio.
La chiave di questa inarrestabile crescita, come è noto, si chiama etf, acronimo di quegli Exchange Trade Funds o Fondi Indicizzati che dir si voglia che, con commissioni medie a oggi dello 0,2% ma in ulteriore calo vista l’uscita negli ultimi mesi di numerosi prodotti a costo zero, stanno rappresentando l’autentica disruption nel mondo del risparmio gestito, tagliando l’erba sotto i piedi a tradizionali gestori attivi. Un dato eloquente: secondo un’analisi di Morningstar riportata da FT, BlackRock e Vanguard nel 2018 hanno raccolto da soli il 57% di quanto affluito globalmente nel variegato panorama dei fondi comuni. E limitandosi agli etf, nell’anno appena trascorso sicuramente non facile, gli afflussi hanno comunque raggiunto la cifra di 695 miliardi. Per completezza di cronaca, l’anno precedente gli strumenti indicizzati avevano raccolto 962 miliardi.
Le tante attenzioni nei confronti di BlackRock e Vanguard sono quindi più che giustificate e trovano riscontro in dati incontrovertibili. Eppure, il bello della narrazione è che questi due soggetti, accomunati da un’identica volontà di potenza e da una sfida senza quartiere per aggiudicarsi i nuovi ghiotti mercati europeo e asiatico, non potrebbero essere più diversi per storia, stile e filosofia operativa. Non cloni in lotta per il predominio sui mercati, ma pianeti finanziari nati con ambizioni diverse e ruotanti in universi paralleli che l’immenso successo degli etf ha finito per unire in un’unica orbita competitiva.
BlackRock è senza dubbio tra i due giganti a essere il più conosciuto. Per la sua natura poliedrica e attivismo che lo porta a ricoprire posizioni chiave e ben riconosciute nelle principali banche e società del mondo. La lista è troppo lunga e indagata per essere meritevole di citazione. Basti qui ricordare che il braccio operativo sugli etf risponde al nome di iShares ma che il cuore pulsante di questa istituzione newyorkese è rappresentato da Aladdin (acronimo di Asset, Liability Debt and Derivative Investments), venduto come servizio in oltre 50 nazioni, sorta di oracolo animato da una complessa macchina algoritmica, che cede i suoi costosi e richiesti servizi in forma di consulenza automatizzata a governi, enti pubblici, autorità e anche istituzioni finanziarie concorrenti. Per molto giornalismo d’indagine di stampo anglosassone una sorta di Spectre della finanza, capace con i suoi tentacoli di condizionare governi e decisori in tutto il mondo. Più semplicemente, tra gli addetti ai lavori, BlackRock è al momento la massima espressione del potere finanziario a stelle e strisce, forza di proiezione dei molteplici interessi geostrategici statunitensi nei mercati mondiali, diretta con mano ferma ma molto sensibile alle nuove tematiche della sostenibilità e dei diritti dal suo ceo nonché cofondatore (nel 1988) e presidente Larry Fink.
L’altro pianeta costretto suo malgrado a un orbita coerente con quella del suo rivale nell’universo finanziario a stelle e strisce, è Vanguard. In un certo senso la società fondata da Jack Boogle nel 1974 dal nome evocativo di future e vincenti battaglie (il nome è ripreso da quello della nave ammiraglia di Horace Nelson a Trafalgar) e oggi guidata da Mortimer J. Buckley non ha paradossalmente nel suo dna l’esibizione muscolare. Piuttosto una strategia di crescita silenziosa ma terribilmente efficace, che l’ha portata ad essere già ora la prima società Usa per volume trattato nei Fondi Comuni, proiettandola con l’intuizione originaria degli etf a competere per masse gestite globali con BlackRock.
Se quest’ultima è sinonimo di potenza manifesta e diversificata, Vanguard è quella di concentrazione verso un’unica e ben chiara meta: il primato nei prodotti a gestione passiva. Questo si una sua eredità genetica precisa, derivante direttamente dall’intuizione di Boogle, affascinato all’atto della fondazione della sua creatura dai concetti di democrazia finanziaria che il suo mentore, l’economista Paul Samuelson, predicava in saggi e interventi accademici. Si trattava, e si tratta tutt’ora, di dare risposta a una semplice quanto fondamentale e mai sopita domanda: può la gente che non dispone di grandi ricchezze partecipare alle sorti della Borsa statunitense?
Risposta affermativa, se è vero che da quel primo indice del 1974 indicizzato allo S&P 500, Vanguard si trova adesso a gestire 5.600 miliardi di dollari con 415 tra fondi low cost a gestione attiva e indicizzati. Con un Average Expense Ratio giustamente messo in evidenza nel sito istituzionale che, calcolato per le attività in Usa, è stato nel 2018 pari allo 0,10%.
Forte della sua governance a prova di bomba e di indebite pressioni esterne, posto che Vanguard è controllato dagli stessi fondi che amministra, la partita con BlackRock si inizia a giocare seriamente per il predominio sui mercati asiatici ed europei. In questo il gruppo newyorkese sembra al momento meglio attrezzato rispetto al suo rivale, grazie a una policy generalmente più attiva e che non rifugge la pubblicizzazione di posizioni azionarie di peso all’interno delle principali istituzioni finanziarie globali. Entrambe però si sono ben attrezzate per gli anni a venire. All’acquisto da parte della Roccia Nera del roboadvisory anglo-tedesco Scalable Capital, ha risposto il gruppo di Filadelfia acquisendo la fintech tedesca Raisin. In palio c’è un mercato potenziale da aggredire nel vecchio continente, stimato in circa 800 miliardi di masse.
Il fischio d’inizio di questa silenziosa competizione è stato dato. Vedremo chi sarà il vincitore. (riproduzione riservata)

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