La dequalificazione professionale può essere soggetta a risarcimento del danno non patrimoniale, per violazione dell’articolo 2013 del codice civile.

La citata disposizione, al comma 1, prevede che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto… ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.

Si tratta di protezione tradizionalmente intesa come di contenuto inderogabile, rispetto alla quale dell’art. 2103 c.c., comma 2, sancisce la nullità di ogni patto contrario.

La norma è violata, avuto riguardo alla libertà e alla dignità del lavoratore nei luoghi in cui presta la sua attività ed al sistema di tutela del suo bagaglio professionale, quando il dipendente venga assegnato a mansioni inferiori.

L’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere:

·         sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare

·         sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali.

Invero, la violazione dell’art. 2103 c.c., può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è di certo bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro.

Il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore anche mediante il meccanismo presuntivo, secondo i dettami dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi gravi, precisi e concordanti.

In definitiva, una volta adempiuto l’onere di allegazione da parte del lavoratore – qui non in discussione – preludio alla formazione della prova anche in via di presunzione, per quanto sinora detto, compete al giudicante di procedere alla quantificazione del danno, anche in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c.

I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta e adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata, in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 20 giugno 2019 n. 16596