di Andrea Giacobino

L’asset management è diventato un business sempre più difficile, guidato da nuove tendenze strutturali nel comportamento dei clienti, nella complessità del quadro regolatorio e della tecnologia. «After the easy money boom, stark choices for asset managers», è intitolato il nuovo report di Bain & Co. che individua le principali criticità a breve di un settore finora estremamente remunerativo. Del resto basta guardare il mercato italiano: nel 2018 il dato dei primi sei mesi dice di 9,3 miliardi di raccolta netta positiva per i fondi comuni, ma nello stesso periodo dell’anno prima i risultati del furono nettamente migliori con 56,5 miliardi. Un collasso del modello “midtier”, “plain-vanilla” e “full-service” lascia ora davanti ai gestori patrimoniali due direzioni strategiche fondamentali da scegliere: costruire il business su larga scala (per le strategie di investimento passive o attive) o sviluppare una nicchia altamente differenziata (gestione solo attiva). Ognuna di queste due opzioni richiede un diverso mix di elementi, che spaziano dallo sviluppo dei prodotti alle operazioni di fusione e acquisizione fino ad arrivare all’innovazione all’interno del modello operativo.

Il business dell’asset management secondo Bain &Co. può ancora cavalcare agevolmente un’ondata di ricchezza crescente a livello mondiale, ma può anche andarsi a incagliare contro barriere nascoste appena sotto la superficie dell’acqua. È vero, la ricchezza finanziaria si muove su una traiettoria di forte crescita in tutto il mondo, cavalcando un mercato “toro” con valori in crescita. In molti mercati emergenti, l’accumulo di ricchezza privata ha accompagnato l’espansione della classe media. Nei paesi sviluppati, la crescita è giunta in gran parte attraverso la spinta dei prodotti previdenziali per colmare il gap pensionistico (che spinge ad aumentare i risparmi per la pensione), accompagnato da un contemporaneo passaggio dei risparmiatori dai tradizionali prodotti assicurativi del ramo vita ai prodotti di investimento.
Le società del settore dovrebbero in teoria trarre vantaggio da questa espansione della ricchezza a livello globale e da una crescente tendenza degli investitori a delegare sempre più le proprie decisioni ai professionisti. Tuttavia, il business è in realtà meno stabile di quello che sembra. Il boom del denaro facile iniziato nel 2012, caratterizzato da bassi tassi d’interesse e dalla ripresa economica in molti paesi, ha mascherato tendenze secolari più profonde nel comportamento dei clienti e nella regolamentazione. La clientela è diventata in generale sempre più attenta ai costi, più esigente per quanto riguarda le strategie di investimento, disposta a fare confronti più rigorosi tra prodotti, prezzi e servizi e meno fiduciosa nei prodotti gestiti attivamente. Allo stesso tempo, i regolamenti di mercato, in primis la Mifid 2, impongono ai consulenti finanziari di fornire piena trasparenza sul costo totale dei prodotti d’investimento. Le nuove norme stabiliscono anche regole più severe sugli incentivi di vendite di prodotti. Come risposta, gli asset manager hanno aumentato la loro spesa annuale per le attività di compliance, mettendo i loro profitti ancor più sotto pressione. Di conseguenza, sebbene l’industria abbia goduto dal 2012 di un tasso di crescita annuo composto medio (cagr) del 7% degli asset under management (aum), i profitti in rapporto agli asset sono diminuiti del 2% annuo secondo le stime di Bain & Co.. In un orizzonte che arriva fino al 2022, il modello elaborato dalla big firm della consulenza prevede un tasso annuo composto del 4% per la crescita degli aum, oltre a un forte calo dei profitti per asset, pari a ben il 7% annuo (cfr figure 1 e 2).

Questo calo della redditività ha accelerato la domanda di investimenti tecnologici che offriranno contemporaneamente nuovi tipi di prodotti e servizi a valore aggiunto ai clienti e aumenteranno l’efficienza e la scalabilità dei processi. In questo contesto, va notato che le società più vulnerabili avranno più difficoltà a fare le politiche di prezzo che desiderano e a tenere a bada il costo per asset; di conseguenza, le aziende più forti acquisteranno ancora quote di mercato e riusciranno a reclutare nuove professionalità. Bain stima che il gap di profitti tra le prime 10 società del settore e le ultime 10 passerà dai 10 punti base del 2017 a 13 punti base entro il 2022, contro i 4 punti base che si registravano invece nel 2013. Ciò si tradurrà, nel caso di due gestori con 300 miliardi di euro circa di asset ma con competitività differenti sul mercato, in una differenza circa 400 milioni di euro negli utili entro il prossimo quinquennio. Inoltre, i profitti globali degli operatori del settore, stimati nell’ordine di 81 miliardi di euro nel 2022, risulteranno in linea addirittura con quello del 2007, cioè di 15 anni prima, a causa soprattutto della debolezza delle aziende maggiormente vulnerabili.

In questo ambiente meno favorevole, le aziende dovrebbero rivedere le proprie strategie. In particolare, uno scenario probabile è un crollo di quelle società di media e piccola dimensione che hanno un’offerta standardizzata e senza alcun vantaggio competitivo, che attualmente rappresentano circa la metà degli aum globali. I player di medio livello, che finora hanno fatto affidamento per lo più sulla rete di distribuzione di un gruppo bancario o di una compagnia di assicurazione che le controlla, hanno mantenuto finora la loro quota di mercato: ma sono destinati a essere perdenti sotto il nuovo regime normativo.
Il possibile collasso dei “pesi medi” dell’asset management può essere evitato seguendo due direzioni strategiche diverse. Una strada consiste nell’accrescere le proprie dimensioni, con due varianti: grandi gruppi come BlackRock e Vanguard hanno spalmato i loro costi su una base di asset ampia, prevalentemente passiva. Altri grandi del settore, tra cui Amundi e Fidelity, detengono grandi portafogli con una vasta gamma di prodotti a gestione attiva. Ma c’è anche una strada diversa che può essere percorsa: sviluppare offerte altamente differenziate che possono giustificare le tariffe “premium” applicate. Negli ultimi tempi, la maggior parte dei guadagni ottenuti dagli investitori istituzionali è generata da gestori patrimoniali che offrono alti livelli di alpha, cioè di extra rendimento rispetto al mercato. Tali gestori tendono a ritagliarsi una nicchia incentrata su una specifica classe di attività, di prodotti, di strategie di portafoglio o di segmenti di clientela. Sono i casi, per esempio, della svizzera Robeco, della svedese Nordea Asset Management e di alcune boutique finanziarie negli Stati Uniti.

Il report di Bain & Co. evidenzia che muoversi in entrambe le direzioni richiede di puntare su otto fattori che contribuiscono al successo: prodotti, espansione della value chain, fusioni e acquisizioni, tecnologia, modelli operativi, dipendenti, clienti e distribuzione (cfr figure 3 e 4). A seconda dei rispettivi punti di partenza e della direzione di viaggio, gli asset manager potranno seguire tre modelli.
Modello n. 1: attività passive su larga scala. L’aumento dei fondi negoziati in borsa (Etf) ha contribuito a stimolare un significativo flusso di asset verso grandi gestori passivi. BlackRock, Vanguard e State Street detengono oltre il 75% della quota di mercato globale degli investimenti negli Etf. Per queste grandi aziende, una strategia di fusioni e acquisizioni si concentrerà probabilmente più sull’acquisizione di nuove capacità tecnologiche, che sul raggiungimento di dimensioni maggiori. Al contrario, per i gestori patrimoniali passivi senza dimensioni adeguate, l’m&a sarà un modo per ampliare il proprio portafoglio di attività. E, data la minore penetrazione dei fondi passivi in Europa e in Asia, in quei mercati potrebbe ancora esserci spazio per la nascita di un campione della gestione passiva.

Modello n. 2: gestori attivi su larga scala. Molti investitori cercano ancora una gestione attiva. La francese Amundi è riuscita a sfruttare tre fattori cruciali per il successo con questo business model: m&a, modello operativo e distribuzione. In un mercato frammentato, l’m&a è un’opzione giusta per incrementare significativamente le masse e ampliare la base di competenze di un’azienda, attraverso acquisizioni aggiuntive o una fusione tra pari. La solida storia di crescita per linee esterne del gruppo francese è iniziata con la sua fondazione, essendo la società il frutto della fusione delle attività di asset management di Crédit Agricole e di Société Générale . Alla fine del 2016, il gruppo ha acquisito Pioneer Investments, costituendo il più grande gestore patrimoniale in Europa e diversificando la propria base di clientela verso i gli investitori retail e realizzando sinergie di costo pari a 150 milioni di euro. Un modello operativo realizzabile deve essere low cost e supportato dall’esternalizzazione di processi non core e di basso valore. Su questo fronte, i francesi hanno sviluppato un modello altamente efficiente, con un rapporto cost/income di appena il 52%, rispetto al 73% della media del settore. Nella distribuzione, Amundi ha saputo riconoscere presto la tendenza della diversificazione verso l’architettura aperta. Sebbene tradizionalmente si basasse sulla distribuzione captive attraverso accordi con le banche controllanti, oggi il gruppo transalpino ha oltre 1.000 partner di distribuzione terzi.

Modello n. 3: una nicchia differenziata. Quali nicchie sono attraenti? Tre segmenti di prodotti si distinguono oggi come opportunità interessanti: fondi multisettoriali tematici che investono in argomenti come la mobilità e la tecnologia pulita, investimenti socialmente responsabili e investimenti alternativi come hedge fund, infrastrutture e immobili. Tutti questi possono richiedere commissioni più elevate se eseguiti correttamente, ma esigono anche capacità distinte. Nordea, per esempio, ha costruito una posizione forte basata sulla sua rigorosa attenzione a prodotti, dipendenti e clienti. I suoi prodotti si dividono in due linee: Active Alpha e Target Return. Sempre più spesso, Nordea ha coltivato strategie multiasset con obiettivi predefiniti che sovraperformano costantemente i benchmark. Ad esempio, il Nordea 1 – Stable Return Fund ha raccolto talmente tanto che è stato chiuso ai nuovi investitori dopo 10,5 miliardi di euro di flussi in entrata, uno dei più grandi fondi di rendimento assoluto in Europa.
Per quanto riguarda i dipendenti, la gestione patrimoniale delle risorse può sfruttare il potere dei gestori “star”, purché siano adottate alcune misure precauzionali per gestire il rischio: collegare i compensi al successo dell’investimento o al successo nella distribuzione o al legame con l’azienda e impiegare manager di supporto per garantire la continuità. Il Nordea 1 – Stable Return Fund è stato per esempio supervisionato da tre manager sin dall’inizio, con rischio ridotto al minimo attraverso un approccio di squadra nel caso in cui un manager lasci il ruolo. L’attenzione di Nordea Asset Management nei confronti dei clienti al dettaglio è simile a quella delle attività di vendita al dettaglio della propria banca madre. Gestisce commissioni medie elevate su una vasta base di clienti europei, con una forte performance nei paesi nordici e guadagna terreno in Germania, Italia e Spagna.

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