di Giuseppe Stadio Caputo

Cercasi, anche se con largo anticipo, presidente delle Generali . Lo statuto pone il tetto di 70 anni per ricoprire la carica e l’attuale chairman Gabriele Galateri di Genola ne avrà 72 ad aprile 2019, quando bisognerà rinnovare il cda. Chi lo sostituirà? In alcuni ambienti milanesi riservati circola già un nome: Domenico Siniscalco, managing director e vicepresidente di Morgan Stanley international, ex ministro del Tesoro, candidato nel 2010 alla presidenza del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo e di recente, per qualche ora, nuovamente ministro del Tesoro in pectore, quando sembrava che la maggioranza Lega-M5S volesse puntare su Giulio Sapelli premier. Siniscalco è un manager di alto profilo, che ha le credenziali giuste per ricoprire quel ruolo dal punto di vista anagrafico (64 anni), reputazionale e delle relazioni anche all’interno della compagnia, dove è gradito dai soci italiani, tra cui Francesco Gaetano Caltagirone , secondo azionista dietro Mediobanca , con il 4%.

A gennaio prossimo comunque verrà dato l’incarico a un head hunter per individuare una rosa di nomi. Ma sarà una specie di foglia di fico per coprire i grandi giochi di potere nell’ex salotto buono, dove le azioni adesso si contano e non si pesano più.
Mediobanca non è più lo snodo di un tempo, e il reticolo di partecipazioni incrociate è governato da un patto da cui quasi certamente Unicredit uscirà a fine settembre: la governance a Trieste, comunque, stuzzica appetiti. Ci sarà da contare anche il 3% detenuto da Mediobanca nel Leone, che verrà venduto entro giugno 2019. Alberto Nagel, il primo agosto, illustrando il brillante bilancio 2017-2018 di Mediobanca , ha sfoderato tre opzioni: vendita sul mercato, fuori mercato o utilizzare il pacchetto nel concambio di qualche acquisizione dell’asset management e advisory. Mediobanca venderà le azioni a un prezzo superiore a 17 euro. Nella seconda opzione, la vendita fuori mercato, le azioni potrebbero far gola ai soci italiani del Leone, a cominciare proprio da Caltagirone . Chi è vicino al costruttore romano a capo di un quasi impero che va dal cemento, agli immobili, all’editoria, assicura che ha l’ambizione di salire fino al 7% per poter sovrastare Edizione del gruppo Benetton, che è al 3% e vorrebbe crescere fino al 5%. Caltagirone , Benetton, Delfin (Leonardo Del Vecchio) oggi al 3,15 e Dea Capital potrebbero ripartirsi la quota di Mediobanca , sempre che i valori di borsa dovessero convenire. Ma a quale prezzo politico-economico e di potere potrebbe avvenire l’operazione? Sicuramente in cambio di maggior peso nel prossimo cda, che deve far i conti con i paletti statutari.

Oltre della soglia massima dei 70 anni per diventare presidente, c’è quella dei 77 per entrare nel board, con Caltagirone che ne avrà 76 e punta alla riconferma alla vicepresidenza. Ed Edizione, oggi non rappresentata, quasi certamente chiederà spazio, aumentando il peso dei soci italiani. Ma anche sulle strategie e l’organizzazione dove serve una convergenza di visioni non semplice da trovare. Di recente per esempio, la nomina di Frèdèric de Courtois a general manager (anche se non formale), seppure passata all’unanimità, ha fatto nascere qualche riserva per la francesizzazione del top management, e si sa che i soci italiani, ossia Caltagirone , Benetton, Lorenzo Pellicioli per De Agostini, sono concordi sull’utilizzo degli 1,5 miliardi in cassa delle dismissioni per la crescita del Leone ed eventualmente potrebbero anche ricorrere a un aumento se servisse per consentire a Trieste di espandersi in Europa.

Non c’è, quindi, solo Elliott a rendere calda l’estate nell’ex salotto buono che si prepara a una lunga campagna elettorale. Anche se è ormai il mercato a farla da padrone nell’ex galassia, la caccia al Leone per definire il nuovo vertice, da settembre prossimo, rimetterà in moto le grandi manovre. Del resto la storia degli ultimi 20 anni delle Generali è stata caratterizzata da periodi di instabilità a cavallo di lotte partite quasi sempre da Mediobanca .
Il primo grande ribaltone fu nel 1995, quando in seguito alla fallita scalata alla Compagnie du Midi, Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi cacciarono Eugenio Coppola di Canzano e Alfonso Desiata (peraltro contrario all’operazione ed esiliato nella controllata Alleanza). Presidente divenne Antoine Bernheim, socio di Lazard, in grandi rapporti con il fondatore di Mediobanca : con Cuccia, attraverso Euralux, aveva blindato l’assetto di controllo del Leone. Quattro anni dopo, però, il fallimento dell’opa su Assurances Générales de France e la posizione di Bernheim sulle opa di Sanpaolo Imi su Banca Roma e di Unicredit sulla Comit (domenica 21 marzo 1999) dissonante con quella di Mediobanca , provocarono la rottura dei rapporti con Cuccia e costarono la poltrona al banchiere francese. Bernheim fu sostituito da Desiata, tornato in auge in Mediobanca per i risultati ottenuti con Alleanza. Il manager amico di Giovanni Bazoli e i vertici della banca d’affari però non ebbero mai un rapporto fluido, anche perchè Cuccia e Maranghi non gli avevano mai perdonato il sostegno dato al banchiere bresciano nel 1994, quando fece naufragare l’opa di Comit su Ambroveneto.
Nel 2001, scomparso Cuccia, Maranghi con un’imboscata che irritò anche Bankitalia, rimosse Desiata, avvicendandolo con Gianfranco Gutty che sarebbe durato un solo anno. Perché un nuovo terremoto, conseguenza dello sbarco in Mediobanca del finanziere bretone Vincent Bolloré, saldò la blindatura dell’azionariato Generali da parte di Unicredit , Capitalia e Mps , con l’armistizio tra soci italiani e francesi auspicato da Bankitalia e concluso da Cesare Geronzi: Maranghi fu sostituito proprio da Galateri alla presidenza di Mediobanca e la manovra riportò Bernheim in sella al Leone.
Nel 2010, Bernheim, mollato da Bolloré, cedette la presidenza di Trieste a Cesare Geronzi, che per questo lasciò la presidenza di Mediobanca e rimase a Trieste solo un anno, avendo operato perché il Leone avesse completa autonomia dagli eredi di Cuccia. Oltre a questa volontà di legittima autonomia, furono gli scontri tra i soci e tra questi e il management sulla permanenza di Generali in Rcs a portare al dimissionamento di Geronzi (aprile 2011), sostituito da Galateri. L’anno dopo i soci silurarono Giovanni Perissinotto dal ruolo di amministratore delegato a causa dell’andamento poco soddisfacente e delle sue strategie, ai legami con alcuni azionisti, e i suoi dissensi da piazzetta Cuccia, facendo posto a Mario Greco. E dopo un triennio di relativa tregua, nuova bufera: nella primavera 2016 via Greco e dentro Philippe Donnet, grande sodale di Bolloré e di Jean Pierre Mustier, promosso ad di Unicredit nell’estate dello stesso anno. Nel gennaio 2017 nuovo scossone a Trieste, con le dimissioni quasi improvvise di Alberto Minali, direttore generale, appoggiato dai soci italiani guidati da Caltagirone .
Non c’è che dire: le poltrone di vertice in Generali scottano. Tre i presidenti negli ultimi otto anni e tre gli amministratori delegati. Donnet, nella presentazione del semestre 2018, ha dato appuntamento al 21 novembre quando verrà illustrato il nuovo piano triennale: si è candidato a gestire il nuovo business plan, quindi ipotecando la conferma. Ma anche se il salotto buono non è più tale ed è governato dal mercato, le poltrone potrebbero restare sempre bollenti. (riproduzione riservata)

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