Il governo ha tagliato di 2,3 miliardi la spesa sanitaria. E altri 10 miliardi di riduzioni sono allo studio. Gli italiani, che già spendono di tasca propria più degli altri cittadini europei, hanno bisogno di un pilastro integrativo per garantirsi più copertura

di Paola Valentini

Il blitz del governo sulla sanità pubblica rischia di rivelarsi molto dispendioso per le famiglie italiane. La mossa a sorpresa è contenuta nel decreto legge 78/2015 che avrebbe dovuto contenere disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Nato come provvedimento teso a consentire a Comuni e Regioni di affrontare l’emergenza bilanci, è diventato una piccola grande manovra che ha ottenuto la fiducia al Senato e ora va all’esame della Camera.

Non estraneo al provvedimento è sicuramente l’analisi condotta da Marco Carrai, presidente del Cambridge Management Consulting Labs molto vicino al premier, sull’azione di risanamento del San Raffaele che ha portato a un livello di efficienza in tutte le procedure tale, che se fosse preso a benchmark di riferimento per la sola Regione Lombardia vi sarebbero risparmi nel settore per 1,8 miliardi annui. Considerando che la Lombardia rappresenta il 9-10% del settore in Italia i conti dei risparmi sarebbero presto fatti: 18 miliardi Nella norma è prevista una riduzione di 2,3 miliardi annui a decorrere dal 2015 dei fondi trasferiti alle Regioni per garantire il Servizio Sanitario Nazionale. E non è chiaro quanti di questi rientrano nella riduzione complessiva di spesa per la sanità di 10 miliardi previsti nell’ambito della spending review. Per ridurre i costi della sanità il decreto dispone interventi sulla spesa per l’acquisto di beni e servizi sanitari, dispositivi medici e farmaci e si punta a una rinegoziazione dei contratti con i fornitori.

Ma soprattutto saranno multati i medici che prescriveranno esami superflui e inutili.

Si prevedono infatti misure di riduzione dello stipendio del medico, in caso di «comportamento prescrittivo» non conforme alle indicazioni del decreto del ministro della Salute, che individuerà condizioni di erogabilità e appropriatezza delle prestazioni. D’altra parte da un’indagine dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali emerge che il 50% dei medici ospedalieri pratica la medicina difensiva, che si esplica attraverso prescrizioni di esami e visite a scopo precauzionale, per il timore di incorrere in cause legali. Un fenomeno che secondo il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, costa alla sanità circa 13 miliardi l’anno. Ma l’opposizione si fa sentire.

Il problema è che oggi i cittadini italiani pagano di tasca propria le spese per curarsi, quando non rinunciano per mancanza di soldi, perchè le coperture integrative latitano. Il rapporto Costruire la nuova sanità integrativa realizzato da Rbm Salute con il Censis, descrive un Paese, l’Italia, in cui il livello di spesa privata intermediata dalle forme sanitarie integrative è inferiore di più del 30% alla media Ue, mentre l’incidenza della spesa sanitaria privata, ovvero pagata direttamente dai cittadini, risulta appena inferiore a quella dei Paesi dell’Europa a 27. In tale contesto, spiega il rapporto, il tratto peculiare dell’Italia è rappresentato dalla forte incidenza (87%) della spesa sanitaria sostenuta dalle famiglie e non coperta da polizze o fondi sanitari. sul totale della spesa sanitaria privata. Nel 2013 la spesa sanitaria privata dei cittadini ha sfiorato i 27 miliardi di euro (circa 485 euro pro capite per cittadino) superando il 20% della spesa sanitaria totale in Italia, compresa quella pubblica. Le forme sanitarie integrative hanno intermediato soltanto 4,5 miliardi di euro. Dai dati emersi dalla ricerca effettuata da Rbm Salute, oltre l’80% degli italiani non dispone di una forma sanitaria integrativa e fuori dal mondo del lavoro non esiste alcuna forma di secondo pilastro. Ecco perché la sottoscrizione di una polizza ad hoc diventa ancor più una necessità (nella tabella in basso una selezione di alcune proposte delle compagnie)

In altre parole, il Paese, spiega il rapporto Rbm Salute-Censis «non si è ancora dotato di un adeguato sistema di sanità integrativa in grado di ridurre l’impatto economico di tali cure sui redditi della popolazione». Pertanto, prosegue il rapporto, «la quasi totalità dei costi riferibili alle cure per le quali il cittadino deve ricorrere alla sanità privata, e si tratta nella generalità dei casi di prestazioni di natura extraospedaliera, in particolare delle cure dentarie, ma in molte Regioni anche dei ricoveri, incide direttamente sui redditi delle famiglie, senza che le stesse dispongano di un effettivo sistema di protezione che garantisca questi bisogni». Che aumenteranno sempre di più. «I risparmi ottenuti tagliando ciecamente risorse alla sanità verranno dilapidati nei prossimi anni perché i cittadini godranno di una salute peggiore. In realtà esistono gli strumenti per risolvere l’annoso problema del governo della sanità italiana», afferma Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie, lanciando un appello ai politici perché la revisione della spesa non guardi solo alla quantità di prestazioni, beni e servizi erogati ma anche alla salute prodotta.

Quel che è certo, d’altra parte, è che una popolazione anziana sempre più numerosa impone misure di contenimento dei costi del sistema sanitario pubblico, considerando che l’Italia è un Paese dove l’elevato tasso di disoccupazione, quindi il basso gettito, e l’elevata evasione fiscale non consentono come una volta allo Stato di avere risorse a disposizione per far fronte al bisogno crescente di welfare delle famiglie. Ma questo significa che bisogna trovare forme di integrazione tra pubblico e privato più efficienti, e soprattutto un sistema di collaborazione che renda il sistema sanitario italiano sostenibile, ovvero in grado di rispondere nel tempo alla crescente domanda di salute dei cittadini.

Proprio in tema di sostenibilità, una conferma che la sanità pubblica sia in crisi strutturale dopo i ripetuti tagli alla spesa che ne hanno determinato un progressivo deterioramento arriva dalla Commissione Sanità del Senato. «Il rispetto dei vincoli di finanza pubblica», scrive la Commissione, «hanno messo in crisi il sistema». Tra i punti più critici, «accessi complicati, tempi di attesa elevati, ticket superiori al prezzo della prestazione». Nella relazione si sottolinea come, nel periodo 2000-2012, il tasso medio annuo di crescita della spesa sanitaria italiana sia stato dell’1,4%, molto inferiore alla media Ue 15 (3%) e a quella Ocse (3,9%). Inoltre l’Italia è agli ultimi posti nella classifica Ocse per la spesa in prevenzione: destinati a questo scopo solo 80 euro pro-capite a fronte di Finlandia, Svezia, Paesi Bassi e Germania che spendono tra 157 e 115 euro. Magra consolazione: l’Italia è al quinto posto tra i Paesi Ocse quanto a speranza di vita attesa alla nascita. «Non si tratta di scardinare il nostro modello di Stato Sociale quanto, al contrario, di assicurarne la sopravvivenza attraverso una riorganizzazione che consenta di utilizzare anche le risorse messe a disposizione dal mercato assicurativo e finanziario per fare fronte alle dinamiche della popolazione italiana», afferma Roberto Favaretto, presidente di Rbm Salute. Quindi bisogna spostare l’attenzione della spesa sanitaria pubblica a quella complessiva, includendo quella privata.

Progetica, società indipendente di consulenza finanziaria, ha elaborato alcuni dati che fanno capire l’importanza di proteggere per via assicurativa la salute (si veda tabella a pag. 18). «Secondo i dati 2013 del ministero della Salute, gli italiani ogni anno ospedalizzati per episodi acuti sono 14 su 100. Il tema è se ci sono a disposizione cifre potenzialmente nell’ordine dei 100 mila euro, o se sia meglio proteggersi per via assicurativa», afferma Andrea Carbone di Progetica. (riproduzione riservata)