di Luciano Mondellini

What a difference a year makes, ripetono inglesi e americani quando notano che nel giro di soli 12 mesi qualcosa è cambiato a tal punto da essere quasi irriconoscibile. Il detto stavolta fa al caso della dinastia Agnelli, che nell’ultimo anno ha trasformato il perimetro dei propri interessi sposandone il baricentro sempre più verso gli Stati Uniti.

Il 1° agosto 2014 l’ultima assemblea degli azionisti Fiat  tenuta a Torino sancì non solo la nascita di Fca , dalla fusione tra Fiat  e Chrysler , ma anche lo spostamento definitivo dal capoluogo piemontese di una società che ha ormai sede legale nei Paesi Bassi e sede fiscale nel Regno Unito.

Oggi, quasi un anno dopo da quella riunione, la galassia della famiglia piemontese è cambiata profondamente. In ottobre Fca  è stata quotata a New York (Milano è ora è solo il listing secondario) e nel contempo l’amministratore delegato Sergio Marchionne ha annunciato la quotazione della controllata Ferrari (che avverrà a New York il prossimo ottobre) e lo scorporo della casa di Maranello da Fca . La Rossa finirà così nel 2016 sotto il controllo diretto della holding Exor , che, a riprova della fase di grande fermento attraversata dal mondo Fca , nel frattempo non è rimasta ferma, anzi. La holding nei mesi scorsi ha venduto l’immobiliare newyorchese Cushman&Wakefield (il closing è atteso entro il 2015), ha acquistato la società di riassicurazione PartnerRe (anche qui il closing è atteso nei mesi prossimi) e ha annunciato di voler salire nell’azionariato dell’Economist sino al 50% dall’attuale 4%. 
Nel contempo ha continuato a investire mediante la controllata Almacantar nel mercato immobiliare londinese puntando (si veda MF-Milano Finanza di venerdì 7) 781 milioni nella ristrutturazione di un’area da 174 mila quadri nel cuore della capitale inglese.

Insomma, nel 2016 il reticolo ufficiale delle partecipazioni di Exor  dovrebbe essere quello nel grafico in pagina. Però tutto quello che è stato fatto finora è soltanto una tappa intermedia nell’ambito del processo di trasformazione del Lingotto ideato da John Elkann e Marchionne. Il punto chiave del riassetto dev’essere infatti ancora affrontato ed è rappresentato dall’aggregazione di Fca  con un gruppo più grande in modo da creare una casa automobilistica globale che sia in grado di reggere meglio le fortissime pressioni competitive nel settore.

Questo giornale aveva indicato immediatamente l’intenzione di Fca  di andare a nuove nozze non appena, nell’ottobre 2014, Marchionne annunciò lo scorporo di Ferrari. L’idea degli Agnelli-Elkann infatti era: portiamo sotto il controllo di Exor , ossia la cassaforte di famiglia, il gioiello Ferrari e fondiamo Fca  (senza più la gemma più splendente) con un’altra casa auto diventando uno dei grandi soci di un colosso internazionale delle quattroruote. Un’idea che nei mesi successivi fu esplicitamente espressa da Marchionne, quando, in occasione della pubblicazione della prima trimestrale 2015, il manager annunciò che il settore auto così come è ora non ripaga il capitale investito e quindi necessita con urgenza di un altro round di consolidamento. Il problema è che nessuno tra i ceo delle altre case auto sembra avere le stesse convinzioni di Marchionne. Così si spiega la serie di rifiuti incassati negli ultimi mesi dal manager italo-canadese e la sensazione che non sarà facile trovare marito per Fca . Tanto più che il rifiuto più pesante è stato quello espresso da Mary Barra, ceo di quella General Motors che da Marchionne viene considerata il partner ideale per Fca .

Qualche osservatore ha voluto mettere in relazione il successo di Exor  nella battaglia su PartnerRe con il futuro di Fca , segnalando che la conquista della società di riassicurazione quotata a New York farà entrare la holding torinese nel salotto buono della finanza statunitense facilitando il pressing nei confronti dei fondi presenti nell’azionariato di General Motors, in modo che questi ultimi a loro volta spingano Barra ad accettare una fusione che apertamente non vuole. In realtà però l’asso nella manica di Marchionne è di natura tutta politica. General Motors infatti ha una capitalizzazione di circa 50 miliardi di dollari contro i 21 di Fca  e sul mercato americano i margini di Fiat Chrysler  sono del 3,7%, la metà rispetto a quelli di GM. Insomma, una fusione «tra pari» appare impraticabile, quindi non resta che una «vendita», seppur mascherata. E Obama, considerando anche tutti gli sforzi fatti nel 2009 dalla sua amministrazione quando decise di salvare Chrysler  affidandola a Marchionne e sborsando soldi pubblici, ora non può permettersi di ignorare una Fca  «in vendita» né in odore di instabilità. Specie in prossimità delle elezioni presidenziali americane (a gennaio inizieranno le primarie). Dunque: è nell’interesse della stessa Casa Bianca un’operazione che tramite una moral suasion governativa unisca Chrysler  con GM, l’altra casa automobilistica statunitense salvata con soldi pubblici e ora tornata al profitto. Politicamente mettere in sicurezza Fca  appare come la soluzione perfetta per i democratici americani.

Se tutto ciò non si concretizzasse, Marchionne si ritroverebbe ad affrontare da solo il piano industriale al 2018 che dal 2016 dovrebbe portare al lancio di sette nuovi modelli Alfa Romeo (oltre alla nuova Giulia, presentata di recente); un piano di non facile realizzazione che era stato bollato immediatamente come «troppo ambizioso» nei circoli finanziari internazionali. (riproduzione riservata)