«Il moderno invecchia», ragionava Leo Longanesi, mentre «il vecchio ritorna di moda». E sulla passerella delle riforme dell’estate 2014 sfila il più classico dei modelli: la rifinitura del sistema pensionistico. A vestire i panni del sarto, impaziente di imprimere il «marchio» sulle regole che coinvolgono centinaia di migliaia di italiani, il ministro Giuliano Poletti: il suo stile è all’insegna di un principio di solidarietà verso gli assegni più bassi da parte di quelli più alti, con tagli, o sfoderando il ricalcolo contributivo. Non si sa quando il «capo» sarà confezionato (palazzo Chigi smentisce i «piani segreti» sui giornali), però salta all’occhio come perfino il (rampante) governo del «rottamatore» tenti di ricucire una tela rattoppata così tante volte, per raggranellare (sicure) risorse da somigliare, oramai, a un variopinto «patchwork». Nel decennio passato, infatti, ad armeggiare con ago e filo fu Roberto Maroni della Lega nord, che con uno «scalone» (legge 243/2004) innalzò l’età per accedere alla prestazione d’anzianità da 57 a 60 anni dal 2008, fino a 62 dal 2014; il successivo esecutivo di centrosinistra, con Cesare Damiano, lo rammendò col meccanismo delle «quote» (legge 247/2007), ma con Silvio Berlusconi nella manovra finanziaria 2010 comparve il nuovo ricamo: la «finestra mobile», alla cui apertura guardarono (speranzosi) dipendenti e lavoratori autonomi per potersi ritirare. Stilista recente (con strascico di lacrime per i sacrifici richiesti) Elsa Fornero, che impose la stoffa del metodo contributivo pro rata a tutti, insieme all’aumento dei requisiti per lasciare l’attività. Quale sarà il prossimo «trend» previdenziale? Chissà. Certo è che il «look» cambierà, giacché la moda, diceva Coco Chanel, «è fatta per diventare fuori moda».