di Roberta Castellarin

I quarantenni di oggi avrebbero bisogno di super poteri per difendere la loro futura pensione da tutti i nemici che la minacciano. Di fatto ereditano dalle generazioni precedenti, oltre all’enorme stock di debito pubblico, un debito pensionistico pesante da sopportare. E se la riforma Monti-Fornero ha esteso a tutti il metodo contributivo pro quota dall’1 gennaio 2012, resta comunque il conto da pagare per tutti gli anni di ritardo nel dire addio al generoso metodo retributivo.

Oggi il 90% delle pensioni che vengono erogate è calcolata con il metodo retributivo, ma secondo le stime dell’Inps queste saranno ancora il 66% del totale nel 2025 e il 36% nel 2035.

Non solo. Nel 2012 la gestione finanziaria di competenza della nuova Inps (dopo la fusione con Inpdap ed Enpals) ha evidenziato un saldo negativo di quasi 9 miliardi, dovuto alla gestione dei dipendenti pubblici ex Inpdap. Il disavanzo dello scorso anno, pari a 8,996 miliardi, risulta dalla differenza tra 376,896 miliardi di entrate e 385,892 miliardi di uscite. L’incorporazione dell’ente pensionistico dei lavoratori della pubblica amministrazione, già in rosso nel 2011 per 10,269 miliardi, ha fatto scendere anche il patrimonio netto da 41,3 miliardi nel 2011 a 22 nel 2012.

Infatti la riforma varata dal governo Monti, che aveva come obiettivo la tenuta del sistema nel lungo termine, non può fare granché nel breve periodo per riportare i conti dell’Inps in ordine.

D’altra parte, se l’economia non riparte e soprattutto se non aumenta il tasso di occupazione (e quindi i contributi versati), non c’è riforma che tenga.

Il motivo è che lo Stato fino al 1997 non versava tutti i contributi dovuti all’ente di previdenza del pubblico impiego. Da qui un buco crescente per l’ente che è andato ad allargarsi quando il numero dei pensionamenti è aumentato. Di fatto ogni anno lo Stato deve versare all’Inpdap prima, e ora all’Inps, 10 miliardi per colmare questo debito, oltre ai 20 miliardi destinati alle pensioni private.

 

Ma questo trasferimento non ci sarà più per i lavoratori che hanno iniziato a versare i contributi dopo il 1996 e che ricadranno in un puro sistema contributivo. «Oggi su 23,5 milioni di pensioni erogate circa 10,5 milioni sono integrate dallo Stato: si tratta del 46% delle prestazioni in pagamento. Mentre per chi ha iniziato a lavorare dall’1 gennaio 1996 la legge ha abolito qualsiasi forma di integrazione pensionistica, per cui se non avranno versato contributi sufficienti resteranno pensionati poveri», sottolinea Alberto Brambilla, coordinatore della Giornata nazionale della previdenza.

Sull’assegno futuro dei quarantenni peserà anche la recessione che sta attraversando l’Italia negli ultimi anni. Infatti la mancata rivalutazione delle pensioni sarà un ulteriore pesante fardello che le vecchie generazioni lasciano in eredità ai giovani. A questo si aggiunge il fatto che l’appuntamento con l’addio al lavoro si allontana sempre di più perché è agganciato alla speranza di vita.

Non solo. Anche i coefficienti utilizzati per trasformare il montante pensionistico in rendita sono legati alla speranza di vita. E quindi l’effetto positivo sull’assegno che si ottiene lavorando di più è in parte compensato dal peggioramento dei coefficienti utilizzati per convertire il capitale accumulato in rendita. Un dato su tutti: i nuovi coefficienti che sono entrati in vigore nel 2013 con validità triennale hanno prodotto un abbassamento medio del 3% del tasso di sostituzione. E, a parità di altre condizioni, un lavoratore che andrà in pensione nel 2031 avrà un tasso di sostituzione più basso di uno che lascerà il lavoro nel 2021 solo a causa dei diversi coefficienti utilizzati, come evidenzia il grafico nella pagina seguente.

 

Il tutto poi si inquadra in un sistema che dà poche certezze. Con il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo non è infatti più possibile calcolare con sicurezza né quando si andrà in pensione né quanto si potrà sperare di incassare. I fattori in gioco sono molti e non sempre facili da stimare. Uno studio condotto da Micaela Gelera, Massimiliano Giacchè e Silvia Leonardi dell’Ordine degli attuari dedicato al tema «Tassi di sostituzione: percentuali da interpretare» dimostra che «il tasso di sostituzione nella sua accezione classica di rapporto tra prima pensione e ultima retribuzione in quanto misura media può dare una semplice indicazione di tendenza, ma non può essere considerato una misura robusta circa il livello di adeguatezza della prestazione, in quanto eccessivamente variabile rispetto alle ipotesi sottostanti».

Nello studio si mostra come il tasso varia in modo significativo a seconda delle diverse variabili in gioco. Il caso analizzato è quello di un lavoratore di 42 anni che abbia iniziato la sua carriera nel 1997 con una retribuzione lorda di 18 mila euro. Sono stati identificati tre livelli di carriera con una percentuale di crescita del salario lineare. In particolare per la carriera bassa la crescita media annua si attesta al 2,7%, per quella media al 3,4% e per quella alta al 4%.

Nel caso in cui non ci sia nessuna interruzione il lavoratore con una bassa carriera avrà un tasso di sostituzione del 74%, mentre quello con una carriera alta del 60%. Con cinque anni di discontinuità lavorativa queste percentuali scendono al 69% per il primo e al 59% per il secondo. Mentre tutto cambia in caso di dieci anni di discontinuità perché in questo caso chi ha una carriera bassa avrà un tasso di sostituzione dell’82% e chi invece ha una carriera alta lo avrà del 51%. La ragione di questa differenza? Il secondo può contare sull’uscita anticipata a 65 anni, mentre il primo dovrà aspettare i 69 anni perché l’uscita anticipata è consentita solo se la pensione è almeno pari a 2,8 volte l’assegno sociale (questo in base al meccanismo di flessibilità previsto dalla riforma Monti-Fornero).

Oltre alla carriera e ai possibili buchi contributivi è poi necessario tenere conto dell’evoluzione della crescita economica. Sempre lo studio dell’Ordine degli attuari mostra come anche solo una variazione di mezzo punto del pil incide in modo significativo sul tasso di sostituzione finale. Basta una riduzione di mezzo punto della variazione media del pil per far scendere il tasso di sostituzione dal 68 al 74% per chi ha una carriera bassa e dal 60 al 56% per chi invece ha una carriera alta.

Il tema della ripresa della crescita economica è quindi cruciale, altrimenti una maggiore equità sarebbe possibile mettendo in campo fattori correttivi della mancata rivalutazione del montante contributivo. Da qui le proposte per cambiare il parametro di rivalutazione. Come quella presentata di Massimo Angrisani, docente di Tecnica attuariale per la previdenza all’università La Sapienza di Roma: «Occorre modificare la regola sul rendimento riconosciuto sui contributi pensionistici prevista nel vigente sistema contributivo, regola che, essendo basata sul tasso di variazione del pil nominale, scarica il tasso di variazione del numero dei lavoratori, contenuto nel tasso di variazione del pil nominale, sul rendimento riconosciuto a tali contributi. Tale variazione, che già risulta negativa, manifesterà questa tendenza, quasi sicuramente per lungo tempo, anche nel futuro a causa delle condizioni demografiche ed economiche, incidendo negativamente sul tasso di rendimento riconosciuto sui contributi pensionistici e contribuendo a formare pensioni da fame».

 

Dal punto di vista dell’equità restano poi aperti altri due temi fondamentali. Da una parte il governo deve ancora trovare una soluzione al tema degli esodati, ossia i lavoratori che hanno firmato accordi per lasciare in anticipo l’azienda, contando sulle regole previdenziali precedenti alla riforma Monti-Fornero. Dall’altra ha scaldato il dibattito estivo il tema delle pensioni d’oro, dopo che la Corte Costituzionale ha bocciato il contributo di solidarietà previsto dal decreto Salva Italia. Per la prima volta infatti è emerso quanto costano all’Inps i super assegni grazie a un’interrogazione della deputata del Pdl, Deborah Bergamini.

Le pensioni d’oro che superano i 4 mila euro lordi al mese sono circa 105 mila in Italia, e rappresentano una spesa per le casse pubbliche di quasi 13 miliardi all’anno. Un dato che colpisce se affiancato al saldo negativo di 9 miliardi registrato proprio nel 2012 dall’ente previdenziale. Ora in campo ci sono diverse proposte per riproporre una sorta di contributo di solidarietà che passi, però, il vaglio della Corte Costituzionale. Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), che da tempo si batte su questo tema, ha presentato una proposta di legge per fissare un tetto alle pensioni d’oro quando le stesse non corrispondano a contributi effettivamente versati, stabilendo, per esempio, che non possano superare il limite di dieci volte le pensioni minime, salvo i casi di chi abbia versato somme maggiori rispetto al limite proposto. Ha commentato la Meloni: «Mi chiedo se possiamo davvero dichiarare un diritto il fatto che qualcuno in Italia prenda una pensione da 90 mila euro al mese che non è minimamente figlia dei contributi che ha versato nella propria carriera, a fronte di intere generazioni che una pensione decente non la prenderanno mai e lavoreranno tutta la vita per pagare i privilegi di qualcun altro». Scelta Civica sta lavorando a una proposta di legge che preveda un forte contributo di solidarietà per la parte di pensione non coperta dai contributi versati, mentre il Pd studia un prelievo del 10% sugli assegni superiori ai 3.500 euro. Infine l’ex presidente del consiglio Giuliano Amato che ha studiato con il presidente del Mefop, Mauro Marè, la proposta di costituire un fondo comune per l’equità previdenziale alimentato anche da un contributo a carico delle pensioni più alte, volto ad alzare il livello della pensione minima.

 

Che il governo stia lavorando a uno strumento per riproporre un contributo di solidarietà a carico delle pensioni d’oro lo ha confermato il sottosegretario al Lavoro, Carlo Dell’Aringa: «Ci sono due strade: la prima è di rendere strutturale il blocco delle perequazioni delle pensioni più alte. Già ora temporaneamente non sono indicizzate al costo della vita, è una misura d’emergenza che potrebbe essere resta strutturale per le pensioni più alte, progressivamente, per arrivare fino alle pensioni altissime che potrebbero rimanere ferme in termini nominali e non più aumentate. Misura minimale ma che nel medio periodo produce comunque effetti notevoli». L’altra strada, ha continuato Dell’Aringa, è il fondo proposto da Amato: «Per incidere su ammontare attuale serve un contributo di solidarietà che non venga bocciato dalla Corte Costituzionale come tassa. Serve dunque un meccanismo di carattere perequativo per togliere a chi ha di più e dare a chi ha di meno; stiamo lavorando per verificare la differenza nelle pensioni alte tra quanto percepito sulla base del più favorevole sistema retributivo e quella che sarebbe stata se si fosse applicato il contributivo: si può ridurre la pensione di una parte di quella differenza e utilizzare il gettito per alimentare le pensioni più basse». Su questo tema è intervenuto anche il ministro del Lavoro Enrico Giovannini in occasione del Meeting di Rimini. Giovannini si è detto favorevole a «intervento redistributivo sul sistema pensionistico e più in generale sull’intero sistema del welfare». Un passo verso quell’equità che ancora manca nel sistema per un intera generazione. (riproduzione riservata)