Dal 1° settembre si pagherà la Tobin Tax sulle operazioni in derivati il cui sottostante è un’azione o un indice di borsa italiano. Comunque si parla di cifre molto modeste, in media qualche decimo di euro o anche meno, per esempio su certificati e opzioni. Per contract for difference (cfd) e opzioni digitali le imposte ordinarie vanno moltiplicate per cinque ma si tratta di cifre sostenibili.

Per avere un’idea basta fare un esempio. Su un’operazione in cfd da 10 mila euro non si supererà 1 euro, su transazioni fino a 50 mila euro non si va sopra 5 euro. Le cose cambiano molto per gli investitori istituzionali. I professionisti sono abituati a pagare qualche decimo di euro per negoziare un Fib. Un’imposta di 15 centesimi su un lotto di future sul Ftse Mib può implicare anche un raddoppio di costi. Inevitabile quindi un calo dell’operatività, come lascia presagire quanto accaduto sulle transazioni in azioni, su cui la Tobin è entrata in vigore l’1 marzo. Con esiti tutt’altro che soddisfacenti.

 

Bilancio in rosso. Va subito chiarito che con Tobin Tax si identificano quattro imposte: sulle transazioni in azioni, sui derivati e per ciascuna categoria sulle relative operazioni ad alta frequenza. Queste ultime due coinvolgono solo gli istituzionali. Il gettito atteso dalle transazioni azionarie è vicino ai 300 milioni di euro, di cui circa 50 di dubbia riscossione perché provenienti dall’estero. Molto poco rispetto a quanto previsto dalla Legge di Stabilità, 1 miliardo di euro. Vanno poi considerate le mancate entrate. La base imponibile degli intermediari sarà erosa dal calo dell’operatività e dai costi legali e amministrativi necessari a rispettare l’imposta. Quindi meno Ires e Irap, e quasi sicuramente anche meno Irpef. Per non parlare del minor gettito sul capital gain, a causa dei minori volumi. Quando si passa sul piano economico le cose vanno anche peggio. Crollati di quasi il 37% gli scambi sui titoli italiani, 332 miliardi di euro in termini assoluti, con punte dell’85% circa sui mercati non regolamentati. E l’Italia si è giocata anche la reputazione, essendo l’unico Paese al mondo a tassare i derivati, mentre è in compagnia delle sole Francia e Ungheria nella tassazione delle azioni. Un simile disastro avrebbe reso consigliabile rinviare l’imposta sui derivati, per almeno due motivi. Anzitutto si poteva attendere la decisione degli altri 10 Paesi Ue che hanno deciso di adottare un’imposta simile. Fra veti incrociati, rinvii e obiezioni il rischio di restare soli è alto. Inoltre, il gettito atteso sui derivati sarà di soli 17 milioni di euro, quindi a conti fatti lo Stato ci va a perdere.

 

Errori e orrori. Come ha fatto lo Stato a fare un simile errore? La cantonata più grossa l’Erario l’ha presa sull’imponibile. Le abitudini e i comportamenti degli investitori cambiano per effetto di un’imposta. Il che è ancora più semplice quando esistono Paesi e prodotti non tassati. Inoltre non si è tenuto conto che in gran parte delle operazioni si utilizza la leva e, con il solo pagamento dei margini, quei soldi materialmente non ci sono. E quando l’onere tributario raddoppia o triplica i costi per un trader la convenienza a operare viene meno. Va infine tenuto conto che introdurre una tassa non significa solo pagarla, ma anche calcolarla, versarla e assumersi grossi rischi per via dei possibili errori. Tutto ciò solo per comprare o vendere un titolo o un derivato quando tanti altri prodotti sono esentasse e si comportano in modo simile. Francamente è chiedere troppo. (riproduzione riservata)