di Anna Messia

Per una volta, in un solo colpo, l’Italia aveva battuto mezza Europa, staccato la Germania, superato alla grande Francia e Spagna e fatto mangiare la polvere all’Olanda. Per non parlare della Gran Bretagna che a quei tempi annaspava nella crisi. Gli anni dal 2007 al 2010 sono stati un periodo d’oro per il settore assicurativo italiano, con le compagnie capaci di mettere a segno una crescita media annua dei premi dell’8,3%, rispetto ad appena il 3,2% della Germania o l’1,8% di Francia e Spagna. Poi l’incantesimo si è rotto e nel 2011 è iniziata la crisi, innescata in particolare dal ramo Vita, che l’anno scorso ha registrato un brusca frenata della raccolta, con un -18% e un risultato tecnico negativo per 3,4 miliardi. Uno scivolone che non si ferma, come dimostrano le relazioni semestrali pubblicate in questi giorni dalle compagnie. A soffrire di più sono le assicurazioni che hanno creato joint venture con le banche. Proprio loro negli anni passati avevano goduto più di altri del boom di prodotti ad alto contenuto finanziario, come index e unit linked, venduti a man bassa allo sportello. Ma ora quegli anni sono alle spalle e le banche, alle prese con i problemi di raccolta, hanno smesso di vendere polizze a pioggia. Anzi, le hanno ridotte ai minimi termini. L’Ania aveva già messo in conto un’ulteriore flessione della raccolta Vita. Ma la realtà è stata peggiore. L’associazione delle assicurazioni aveva stimato per quest’anno una flessione della raccolta Vita del 5% con il ramo Danni stabile (+0,1%). Invece nel primo trimestre il Vita è calato di oltre il 20%, e il ramo Danni è sceso dell’1,2%. Le cose non sono andate meglio da aprile a giugno. Unipol, che pure ha chiuso con un utile semestrale di 121 milioni, più che doppio rispetto allo stesso periodo 2011, ha visto la raccolta Vita calare del 20,4% a 1.074 miliardi, mentre i premi netti si sono più che dimezzati, da 2,7 miliardi a poco più di un miliardo. Cattolica (con profitti in crescita del 28% a 32 milioni) che nel segmento Vita storicamente ha sempre puntato molto sugli accordi bancari, è arretrata del 25,8%, anche se è in ripresa rispetto al primo trimestre. Solo Generali, per la quale gli accordi con le banche hanno un ruolo marginale, è riuscita a muoversi in controtendenza (+0,4% a 23,2 miliardi), ma ha registrato una raccolta netta Vita negativa per 378 milioni causa la decisione di non rinnovare contratti dai premi elevati ma dalla redditività giudicata non in linea con le attese del gruppo, in particolare in Francia, Italia e Spagna. «Le compagnie sono riuscite a chiudere bilanci semestrali in crescita grazie anche alle minori svalutazioni, rispetto all’anno scorso, consentite dello scudo anticrisi », spiega Emanuele Grasso, partner della società di consulenza PwC, «ma il problema della mancata crescita resta. Anche perché all’orizzonte non ci sono segnali che facciano sperare in una ripresa della raccolta Vita. L’unica consolazione arriva dal ramo Danni, con l’Rc Auto che dopo anni di crisi, è tornato alla redditività già dal 2011». Senza la protezione dello scudo anticrisi, che ha consentito alle imprese di non svalutare i titoli di Stato anche se detenuti a scopo di trading, gli indici di solvibilità avrebbero avuto un inevitabile peggioramento. Nel caso di Generali, per esempio, il solvency ratio si sarebbe ridotto dall’1,35 all’1,30, con un impatto del 3,8%. Per Cattolica l’emersione delle minusvalenze congelate avrebbe invece peggiorato l’indice di solvibilità da 1,48 a 1,45. Ma l’impatto più importante l’avrebbe subito Unipol, che ha presentato un solvency ratio dell’1,6 (in pratica il suo indice è 1,6 volte il minimo richiesto dalla legge) grazie allo scudo, in assenza del quale l’indice sarebbe calato a 1,4 volte. «È inevitabile che i titoli pubblici pesino molto nei bilanci delle imprese considerando che investono più di 200 miliardi in Btp», conclude Grasso, «ma al di la di questo c’è un problema di strategia. Le compagnie, con le banche al palo, dovrebbero cominciare a esplorare canali di vendita alternativi, sfruttando per esempio i social network, il web e gli aggregatori». Ma finora su questo fronte si è visto poco. (riproduzione riservata)