di Carlo Giuro

L’asticella dell’età pensionabile è in fase di continuo innalzamento dagli anni Novanta, processo di cui la riforma Monti/Fornero costituisce tappa significativa, per adeguare il momento percettivo delle rendite previdenziali all’andamento della curva demografica italiana, caratterizzato sempre più da un progressivo invecchiamento della popolazione. E la tendenza prospettica, come evidenziato in un recente studio dell’Ordine e del Consiglio nazionale degli attuari è quella di un ulteriore innalzamento della vita media almeno di quattro anni; da oggi al 2040 la speranza di vita dei pensionati italiani di 65 anni, ovvero di chi percepisce una rendita, si allungherà fino a 88 anni per gli uomini e arriverà addirittura a 92 anni per le donne. Alla luce del forte legame che sussiste tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare vanno osservati con molta attenzione anche i riflessi che lo spostamento in avanti della quiescenza produce sui fondi pensione. La prima considerazione va condotta sul riflesso che nel metodo di calcolo contributivo l’innalzamento dell’età pensionabile può produrre sull’entità della prestazione pensionistica obbligatoria. Come è noto infatti il contributivo si struttura sulla capitalizzazione virtuale dei contributi accumulati durante l’intera vita lavorativa rivalutati in base al pil e convertiti in rendita al momento del pensionamento, adottando i coefficienti di trasformazione soggetti ora a revisione periodica con cadenza triennale per adeguarli all’andamento della piramide demografica. Di sensibile rilevanza allora l’età di pensionamento: un ritiro a età più avanzate riduce, in media, il numero di anni in cui si riceverà la pensione e, su basi attuariali (mediante l’applicazione dei coefficienti), accresce la rendita unitaria cui dà diritto il montante accumulato. Il procrastinarsi del pensionamento consente poi di accumulare un montante nozionale più elevato da trasformare in emolumento periodico. È questa la logica dell’introduzione del pensionamento flessibile fino a 70 anni a opera della riforma Fornero. La precondizione, però, è che ci sia continuità nella vita lavorativa senza vuoti contributivi. L’allungarsi della vita lavorativa espone poi a una serie di rischi il futuro percettore. Di fondamentale importanza è infatti la crescita aggregata dell’economia dalla quale dipende il tasso di rivalutazione del montante contributivo nonché la dinamica demografica della popolazione. Entrambe le variabili non sono logicamente manovrabili dal lavoratore con il concreto rischio di avere un tasso di sostituzione (rapporto tra pensione obbligatoria e ultima retribuzione) ridotto. Diventa quindi di fondamentale importanza per il singolo diversificare il proprio rischio previdenziale individuale abbinando alla previdenza obbligatoria forme di previdenza complementare. Ulteriori considerazioni riguardano poi lo slittamento del momento percettivo delle prestazioni di previdenza complementare che va intesa come un vero e proprio binario che scorre parallelo alla previdenza obbligatoria. Va anche evidenziato che l’aderente può proseguire volontariamente la contribuzione con la facoltà di determinare autonomamente il momento di fruizione delle prestazioni pensionistiche. Quali sono allora le considerazioni? La prima riflessione è di carattere finanziario, dal momento che la previdenza complementare capitalizza i contributi versati dal punto di vista effettuale (e non virtuale come per il metodo di calcolo contributivo) attraverso l’investimento nei mercati finanziari. L’innalzamento dell’età pensionabile, rinviando anche il momento percettivo dei fondi pensione, amplia di fatto l’orizzonte temporale di investimento. Il risparmiatore potrà allora rivedere la propria pianificazione finanziaria accedendo per esempio a linee di investimento più aggressive che nel lungo periodo meglio attivano la diversificazione temporale. Saggio è seguire in ogni modo la logica del life cycle con un raffreddamento progressivo della propria esposizione azionaria verso comparti obbligazionari, monetari o garantiti all’approssimarsi dell’età pensionabile. Lo spostamento in avanti della prestazione comporta poi di fatto l’applicazione in futuro di coefficienti demografici più favorevoli per la conversione in rendita riducendosi la speranza percettiva. Da non sottovalutare anche il vantaggio fiscale con una aliquota tendenzialmente molto favorevole dal momento che il 15% previsto canonicamente si riduce dello 0,30 per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione, con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali. (riproduzione riservata)