Di Raffaele Ricciardi

Fare impresa, in Italia, non conviene. Soprattutto se si paragona la remunerazione offerta dall’investimento di capitale nelle maggiori industrie a quanto rendono gli impieghi finanziari in Btp: nel 2011 il roe è stato inferiore al rendimento netto garantito dai bond governativi, facendo segnare un differenziale negativo di 1,5 punti. Il rilievo emerge dall’annuale studio di Mediobanca sui dati cumulativi dei bilanci di 2.032 società industriali e terziarie di grande e media dimensione. Gli analisti di Piazzetta Cuccia hanno evidenziato un aumento del costo del debito nel 2011 dal 5,6 al 6%, frutto anche della corsa dei tassi dei Btp decennali, passati dal 3,4 al 4,9%. Durante lo scorso esercizio il rendimento netto del capitale (roi al 5,8%) non è bastato a remunerare il capitale proprio e di terzi (cioè il debito) a disposizione dell’industria, il cui costo medio ponderato è stato pari al 7,2%. Di conseguenza, notano in Mediobanca, «c’è stata una distruzione di ricchezza pari a 1,4 punti». A questa dinamica sono riuscite a resistere solo le imprese a controllo estero (che pesano per quasi un terzo del fatturato e vantano un roi superiore al 12%, contro il 4,7% medio del settore manifatturiero), quelle rappresentative del made in Italy e il cosiddetto «quarto capitalismo», cioè le aziende di medie dimensioni con spiccata vocazione alla presenza internazionale. Dal punto di vista del conto economico, lo scorso esercizio si è caratterizzato per un recupero dei ricavi, che sono cresciuti del 9,2% portandosi a un’incollatura dal periodo antecedente la crisi (-1,1% rispetto al 2008). A fare da traino ai volumi del fatturato sono stati soprattutto quei comparti che hanno beneficiato dell’aumento del prezzo delle commodity: le aziende attive nel comparto dei metalli (+20,2%) e dell’energia (+17,6%) su tutti. Ma a fare la differenza è stata anche la capacità di agganciare la domanda estera. Nel complesso, il ritmo di crescita delle esportazioni è stata più che tripla nel 2011 rispetto alle vendite all’interno (+18,3% contro +5,5%) e i settori che ne hanno tratto maggior beneficio sono stati quello della gomma e dei cavi (con un fatturato in crescita del 20,2%), delle pelli e del cuoio (+14%) e il lattiero-caseario (+10,5%). Per quanto riguarda il raffronto con il 2008, invece, i prodotti che soffrono ancora la maggiore distanza sono quelli dell’edilizia (che ha perso il 24,4% del fatturato) e gli elettrodomestici (-18,7% dopo aver chiuso anche il 2011 in calo); fiato corto anche per i mobili e i mezzi di trasporto. Detto della buona progressione del fatturato, arrivano le note dolenti per l’industria italiana. I conti economici aggregati delle oltre 2 mila imprese analizzate hanno chiuso il 2011 con un utile di 9,9 miliardi, 18,4 in meno rispetto al 2010. I margini industriali netti sono calati del 4,5% e sono rimasti «assai più lontani che non il fatturato dal massimo pre-crisi del 2007» (-25,6%). I pesanti oneri non ricorrenti (superiori a 16 miliardi) hanno abbattuto l’ultima linea del bilancio, tanto che il risultato netto complessivo, crollato del 65% rispetto al 2010, ha toccato il valore più basso dal 2002, peggiore anno dello scorso decennio. Un altro aspetto problematico, e ormai tipico per l’industria italiana, è la competitività. Nello scorso esercizio si è scavato un ulteriore solco, visto che il valore della produzione manifatturiera per addetto è cresciuta solo dello 0,7%, mentre il costo del lavoro ha fatto segnare il +3,8%. Nel complesso, dunque, il saldo di competitività è negativo di 3,1 punti. L’industria italiana ha vissuto per il quarto anno consecutivo un’emorragia di posti di lavoro: l’occupazione è calata, meno comunque del 2009 e del 2010, di 0,2 punti percentuali. Rispetto al 2007 gli organici si sono ridotti di 68mila unità, con una maggiore incidenza nel settore pubblico (-8,6%) rispetto che nel privato (-4,1%). Le ultime annotazioni rilevanti che emergono dall’analisi di Mediobanca riguardano il rapporto tra azionisti e imprese e la struttura finanziaria delle stesse. Durante gli anni di crisi, tra il 2009 e il 2011, le aziende hanno rappresentato una enorme riserva di liquidità per i rispettivi soci, se si considera che gli apporti (cioè gli aumenti di capitale al netto dei dividendi e dei rimborsi distribuiti) sono stati negativi per 40,8 miliardi (18,6 miliardi nel solo 2011). Per quanto riguarda infine la struttura del debito, la tabella in pagina mostra chiaramente quanto sia aumentato il ricorso alla leva. Il deterioramento della struttura finanziaria è dipeso soprattutto dall’aumento del debito finanziario (+5,8 miliardi, dei quali l’80% proveniente dal credito bancario), al quale ha fatto da contraltare il crollo (-44%) degli aumenti di capitale. (riproduzione riservata)