di Iole Anna Savini e Guido Settepassi

Parlando di legge 231, la storia recente è segnata da svariati interventi giurisprudenziali di merito tesi a far risalire verso la holding la responsabilità amministrativa per fatti di reato compiuti in seno alle controllate. L’espediente tecnico utilizzato per centrare questo scopo ha nella maggior parte dei casi fatto perno sul concetto di interesse di gruppo, inteso come tentativo di individuare un interesse o un vantaggio derivante dal reato che fosse comune a tutte le società facenti parte del gruppo (e quindi anche alla holding), con ciò aggirando il problema di valutare in concreto tale interesse o vantaggio con riferimento a ogni singola società compresa nel perimetro del gruppo medesimo. Di recente sono state pubblicate le motivazioni di una sentenza della Cassazione (20 giugno n. 24583) che per la prima volta in sede di legittimità ha affrontato la spinosa questione relativa alla possibilità che anche la holding possa essere indagata, nel processo 231, per un reato compiuto in seno alla società controllata, di cui la stessa capogruppo possa aver tratto vantaggio. Giusto sottolineare che i risultati cui la Suprema corte è approdata, lungi dal dirimere una volta per tutte le numerose questioni pendenti, sembrano avere quanto meno il merito di fare chiarezza su alcuni aspetti non secondari. Nel caso di specie, uno degli autori del reato, inquadrato professionalmente all’interno della holding, sarebbe stato allo stesso tempo anche amministratore di fatto delle società all’interno delle quali si sarebbe consumata l’attività delittuosa. Il più rilevante pregio della pronuncia in oggetto risiede nell’aver ancorato l’estensione della responsabilità verso la holding a un parametro diverso dall’interesse di gruppo di cui si è detto. La holding era fino a oggi automaticamente portatrice di comune interesse per il solo fatto di essere al vertice del gruppo stesso. Ora è necessario che almeno un soggetto operativo all’interno della holding abbia concorso (nel senso penalistico del termine) con il soggetto operativo all’interno della controllata, autore materiale del reato. In altri termini: essendo holding e controllata entità giuridiche a tutti gli effetti distinte e separate, per estendere alla controllante la responsabilità ex 231 per condotte poste in essere in seno alla controllata è necessario che il giudice accerti l’esistenza del concorso di persone nel reato tra i diversi soggetti che agiscono per conto della holding e della controllata, non essendo più sufficiente il mero riferimento a un generico interesse di gruppo. Ogni società di un gruppo potrà quindi essere chiamata a rispondere per 231 unicamente se in essa abbia agito un soggetto che con il reato compiuto all’interno di una diversa entità del medesimo gruppo abbia avuto un rapporto qualificabile almeno in termini di concorso.

Ciò non significa che da oggi non sia più doveroso, in ottica di condanna dell’ente, accertare la sussistenza in capo a ciascuna società facente parte di un gruppo, di un proprio interesse o vantaggio derivante dalla commissione di un reato all’interno dello stesso gruppo. Tutt’altro. La sentenza chiarisce che l’interesse di ciascuna società (e non quello presunto dell’intero gruppo) debba essere valutato in termini di ricezione di una «potenziale o effettiva utilità». Ed è già un progresso rispetto a quelle teorie dell’interesse di gruppo, di cui si è appena fatto cenno, che in via presuntiva lo individuavano anche solo nella conservazione o accrescimento del valore della quota della holding nelle controllate. Peccato che la Cassazione non abbia spiegato più diffusamente i connotati specifici dell’interesse o del vantaggio che ciascuna società del gruppo debba trarre dal reato: ciò avrebbe contribuito a chiudere una volta per tutte il cerchio sui requisiti di applicabilità della 231al gruppo di società. (riproduzione riservata)