di Ugo Ruffolo
Sulla scena del diritto d’impresa irrompono, talora persino rivoluzionandola, codici e codicilli inattesi perché non sufficientemente pre-valutati quando ve ne era tempo e modo, durante una gestazione normativa spesso sorprendentemente trascurata. Laddove una corretta, preventiva azione di lobby avrebbe potuto fare la differenza offrendo sapiente contributo alle idee, alla sistematica e allo stesso wording normativo. Quasi di soppiatto, e solo nel maggio 2021, è entrata in vigore la legge n. 31 del 2019, che rivoluziona il codice di procedura, potenziando ed elevando ad azione generale sia la class action che l’«azione inibitoria collettiva». Le quali escono dal ghetto della tutela consumeristica e diventano proponibili da tutti contro tutti. «All’americana», per le azioni di classe. Con l’azione collettiva ora addirittura accordata a «chiunque» (l’«uno vale uno» esteso anche alla legittimazione processuale?).

Chiariamo. L’azione collettiva consente di chiedere al giudice civile misure inibitorie o correttive di attività o comportamenti lesivi di interessi collettivi (ambiente; salute; correttezza produttiva, o bancaria, o assicurativa…) anche in assenza di lesioni individualmente azionabili, conferendo al giudicante un potere smisurato, capace di mettere in ginocchio un’impresa. La class action, proponibile da un singolo al fine di ottenere risarcimento in caso di lesione seriale di diritti individuali omogenei, permette l’automatica estensione del giudicato, positivo o negativo, a tutti gli aderenti. L’una o l’altra azione, finora confinate nel codice del consumo, consegnavano a Davide una fionda contro Golia, impedendo al «professionista» l’una di ledere impunemente interessi collettivi e l’altra di trarre profitto da microviolazioni seriali di diritti dei consumatori. La nuova normativa forse eccede in senso opposto, rischiando talora di trasformare quella fionda in un bazooka: abusandone si potrebbe affondare Golia rischiando poco.Mi spiego. Partiamo dall’azione collettiva, ora proponibile da qualsiasi singolo (e non più da un qualificato ente esponenziale), per chiedere a un giudice, per esempio, il blocco di un modello d’auto perché pericoloso o inquinante, o il suo richiamo per riparazioni imposte. E torniamo alla azione di classe, ora generale come negli Usa. Dove, ci insegnano le fiction, è spesso strumentalizzato appannaggio dei grandi studi legali (ma con quel meccanismo apparentemente deviante, pur con abusi, sembra anche che il mercato si automoralizzi).

Da noi virtù e abusi si ripeteranno «a piedi scalzi», essendo ora previsti meccanismi premiali incentivanti, sia per i legali proponenti, sia per la nuova figura (sconosciuta altrove) dei rappresentanti degli aderenti, scelti fra i «soggetti» con i requisiti dei curatori fallimentari (nuovo mercato professionale…). E poi, a tacer d’altro, si permette l’adesione anche dopo la sentenza favorevole; dunque secundum eventum litis. Col doppio effetto di penalizzare oltremodo le imprese, mancando invece un conveniente meccanismo di transazione collettiva tombale, stante il nostro meccanismo di adesione opt-in, essendo costituzionalmente inibito quello di tipo statunitense, dell’opt-out (tutti automaticamente «dentro», eccetto chi dichiara di voler restare fuori). Senza contare che il solo «effetto annuncio» (la legge prevede la pubblicazione online del testo del ricorso al giudice) può gettare fango anche a sproposito, e distruggere una reputazione imprenditoriale, così come un pubblicizzato avviso di garanzia, anche quando infondato, infama irrimediabilmente l’indagato.

Conosco il tema: sia come avvocato d’impresa anche nel settore, sia come curatore di un recente volume in materia (Class action ed azione collettiva inibitoria, Giuffrè, 2021), sia con l’esperienza di una specifica audizione parlamentare: prima delle scorse elezioni avevo illustrato, in Senato, tali problematiche con riguardo a un progetto di legge quasi identico, che fu quindi fermato; ma poi, cambiato il governo, ho visto passare questa legge con scarso vaglio parlamentare. Lo avrebbe meritato. Perché accorda tutele meritorie ma consente anche strumentali abusi.

Non a caso è entrata in vigore con imbarazzati rinvii; da ultimo, per scongiurare forse un temuto uragano giudiziario di azioni a pioggia, anche speciose, per responsabilizzare da malasanità errori veri o supposti nelle forzatamente concitate risposte alla crisi pandemica. È quanto potrebbe verificarsi ora – a ragione o a torto – contro compagnie aeree e aeroportuali per le limitazioni e i disservizi di queste convulse giornate. Perché è vero che i diritti «omogenei» non sono sempre agevoli da enucleare; ma è altrettanto vero che un’azione individuale strutturata come class action (certo, tecnicamente complessa) consentirebbe la agevole adesione delle vittime di danni seriali anche bagatellari, altrimenti «impuniti», moralizzando il settore. Senza contare che, risultando le nuove azioni estese a tutti, dunque anche a, da e fra imprese (o, comunque, professionisti), le lesioni anche seriali lamentabili nell’ambito del trasporto professionale di merci potrebbero aprire contenziosi plurimilionari. Tornando alla tutela dei consumatori e utenti, è vero altresì che la recente tendenza dell’Agcm a stigmatizzare come pratica commerciale scorretta qualsiasi inadempienza di un gestore di servizi, cosi legittimando corrispondenti class action risarcitorie a macchia d’olio, potrebbe scoperchiare un vaso di Pandora. Ma questo è un altro discorso. (riproduzione riservata)

*professore di Diritto Civile all’Università di Bologna
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