Sugli amministratori di società di capitali si concentrano ogni giorno sempre più doveri. Cinquant’anni or sono Milton Friedman scriveva: «There is one and only social responsibility of business: to use its resources and engage in activities designed to increase its profits as long as it stays within the rules of the game, which is to say, engages in open and free competition without deception or fraud».

Molto è cambiato. Gli organi di gestione oggi devono sostenere le più disparate responsabilità: dalla prevenzione della criminalità (dell’impresa e nell’impresa), al rispetto di puntigliosi obblighi Hse, al soddisfacimento di plurime regole di conformità (antiriciclaggio, privacy, etc.), all’esecuzione d’impegni di trasparenza (su dati finanziari e non finanziari).

L’amministrazione dell’impresa impone quindi sforzi erculei, resi tuttavia ancor più ardui dall’opacità dello statuto dell’amministratore di società di capitali, figura che comodamente (ma fittiziamente) viene riguardata come se fosse (sempre) un onnisciente e onnipotente capo assoluto dell’azienda, cui assegnare con disinvoltura posizioni di garanzia, il che val quanto dire responsabilità oggettive discendenti dalla mera carica ricoperta.

Nondimeno, caricare tutto il fardello sulle spalle degli amministratori, sol perché tali, inevitabilmente sortisce un effetto-scoraggiamento, favorendo atteggiamenti di arida conformità documentale, se non di ricerca cavillosa di scappatoie. Occorre uno sguardo diverso, che parta dalle diverse situazioni di gestione e da quest’esame empirico muova, ricercando le norme più adeguate per ciascun distinto scenario. Senza pretendere di forzare la realtà all’interno del mondo delle idee o, meglio, dei preconcetti, serve un atteggiamento scientifico che premi il dato concreto, sperimentale, delle differenti condizioni economico-imprenditoriali di amministrazione e da esso tragga regole differenziate, idonee al caso esaminato.

Almeno tre diversi scenari sembrano in questo senso delinearsi, ciascuno con le sue particolarità. Nei gruppi, per iniziare, le decisioni fondamentali e strategiche e, più in generale, quelle di alta amministrazione sono saldamente nelle mani degli organi centrali del gruppo (acquisizioni e scorpori, distribuzioni straordinarie e buy-back, adesione al cash pooling, outsourcing e shared services, pianificazione fiscale). Se così è, allora è bene prenderne atto e riconoscere apertamente che l’esclusiva dell’organo amministrativo sulla gestione (art. 2380-bis) deve essere predicata diversamente all’interno dei gruppi e che il ruolo dei gestori della singola group company, in questi casi, si risolve nel controllo di merito e di legittimità sugli input vincolanti trasmessi dal gruppo, onde riallinearli all’ordinamento del Paese che ospita la subsidiary, assicurandone la continuità aziendale e garantendo gli interessi giuridicamente rilevanti degli altri stakeholders (il pagamento dei debiti, i livelli occupazionali delle maestranze, l’assolvimento dei doveri fiscali, il rispetto delle comunità).

Abbracciando un’opzione interpretativa aderente al dato fattuale, per cui le parent companies hanno un’effettiva leadership, ma le affiliates possono e devono declinare le decisioni di gruppo secondo gli standard di legalità locali, sembra possibile allocare responsabilità adeguate all’azionista di gruppo (che prende le decisioni strategiche) e all’amministratore della legal entity (che implementa quelle decisioni).

Diversa è la posizione dell’amministratore di una joint venture: uno scenario in cui più investitori hanno negoziato le rispettive sfere di influenza riflettendole all’interno di articolati patti parasociali e statuti, con diritti di veto e di exit. Anche in questo caso la piana ricostruzione del dato fattuale fa trasparire che la mission degli amministratori della jv coincide con la ‘messa a terra’ e la concreta attuazione del contratto di joint venture, perché è questa la condizione di esistenza, resistenza e persistenza della società, essndo evidente che la continuità e il successo del going-concern sono legati alla concordia e al sostegno (e non al dissidio o allo stallo) tra venturers. Nessuna ragione, dunque, di negare che i patti tra soci possano essere sottoscritti anche dalla società e che, per tal verso, divengano fonte di obblighi per la JV company e per i suoi amministratori, alcuni dei principi parasociali essendo anche riproducibili all’interno dei management agreements, di guisa che, ancora una volta, traspaia chiaramente l’ambito di responsabilità dei soci-investitori (cui spettano le decisioni ‘identitarie’ dell’impresa comune) rispetto a quello degli amministratori (chiamati all’allineamento di tali decisioni con l’ordinamento). Mentre il caso delle società familiari è sostanzialmente simile a quello della società di gruppo (di fatto, esiste sempre un raggruppamento con funzioni di guida: la multinazionale, nell’un caso, il gruppo familiare, nell’altro), il terzo scenario veramente diverso è quello dell’amministratore di società i cui strumenti finanziari siano diffusi e parcellizzati tra molti investitori non sindacati. Qui il board ha un’esclusiva piena nella gestione e nell’amministrazione e deve farsi carico di tracciare il cammino dell’impresa. E dunque si giustifica appieno la necessità di amministratori di minoranza e indipendenti, regole specifiche sulle operazioni con parti correlate, articolazione di vari comitati.

Al di là di tutto, resta valida la prospettiva fondamentale per cui non esiste un monolitico corpus che definisca ruolo, obblighi e responsabilità dell’amministratore quale che sia la situazione di gestione che deve affrontare. Esistono invece situazioni diverse, meritevoli di soluzioni diverse.(riproduzione riservata)

*partner Legance – Avvocati Associati

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