NEL XX RAPPORTO DELL’ISTITUTO RIFLETTORI PUNTATI SU UN SETTORE A SCARSA PROTEZIONE SOCIALE

Passano intere giornate «collegati» al mondo intero, grazie ad internet, eppure sono lavoratori «invisibili» per l’Inps. Programmatori, freelance, informatici: professionisti che, da casa o dallo studio, svolgono una moltitudine di differenti lavori il più delle volte di alta professionalità. Ma per l’Inps non esistono: non pagano contributi e, quindi, non maturano neppure diritti a prestazioni (pensione e indennità, quali per malattia, maternità, disoccupazione). È l’universo della «gig economy», dominato dai contratti di «prestazione autonoma occasionale» che, sotto la soglia di 5.000 euro l’anno, non comportano obbligo di contribuzione. A rilevarlo è l’Inps nel XX Rapporto annuale, edizione 2020, presentato la scorsa settimana.

Scarsa protezione sociale. La questione che pone l’Inps riguarda la «protezione sociale», perché di fatto questa grande fetta di mercato di lavoro, poiché non tenuta a versare contributi, neppure potrà contare un domani su alcun tipo di prestazioni, che sia di disoccupazione o pensionistica. Il mondo della «gig economy» (come l’Inps va ripetendo da anni) impone un tema cruciale che è quello della segmentazione del mercato del lavoro, tra occupazione dipendente e indipendente (segmentazione che, secondo l’Inps, con il varo del Jobs Act si è acuita). Peraltro, fa notare il Rapporto, in controtendenza rispetto ad altri Paesi, la quota di lavoro autonomo sul totale dell’occupazione è costantemente diminuita in Italia negli anni: sfiorava il 28% nel 2004, era attorno al 25% dieci anni dopo, attualmente è sotto il 23%. A distanza di anni, la regolazione stenta a trovare forma e di conseguenza anche la protezione sociale dei lavoratori. In più, il dibattito si è cristallizzato sulla tematica dei rider, quasi che la consegna di cibo a domicilio esaurisse il vasto campo della «gig economy»; non è così: è molto più articolato e riguarda almeno tre macro-gruppi di piattaforme digitali (si veda tabella).

Lavoratori «invisibili». Già nel Rapporto dell’anno 2018, l’Inps osservava che «lo spostamento di lavoro di fatto alle dipendenze dal lavoro autonomo a quello subordinato comporta un ampliamento della copertura assicurativa dei lavoratori ed evita che il rischio d’impresa venga trasferito indebitamente sulle loro spalle. Meglio ancora se il passaggio dal parasubordinato al subordinato comportasse assunzioni con contratti a tempo indeterminato, anziché a tempo determinato, perché il primo tipo di contratti, a dispetto di molte previsioni catastrofiche sui licenziamenti dai contratti a tutele crescenti al termine dell’esonero contributivo, continua a garantire una maggiore continuità e stabilità contributiva».

La maggioranza dei «gig workers» sono per l’Inps «invisibili». Questo accade per numerose ragioni, ma soprattutto per la dominanza dei contratti di prestazione autonoma occasionale che, sotto la soglia di 5.000 euro l’anno, non comportano obbligo di contribuzione ai fini pensionistici. Erano visibili esclusivamente i rider di Foodora, tutti assunti con un contratto di collaborazione standard e, quindi, contribuenti alla Gestione separata Inps; ma la società ha chiuso le proprie attività in Italia e, quindi, i dati (e i lavoratori) sono oggi ancora più «poveri» di ieri.

Si muove la giurisprudenza. La vicenda, secondo l’Inps, è emblematica anche per altri aspetti: a gennaio del 2019 c’è stata un’importante sentenza della Corte d’Appello di Torino che ha accolto il ricorso di cinque ex rider di Foodora stabilendo per loro il diritto a ferie, malattia e tredicesima. La decisione, in qualche modo, ha avvicinato i diritti dei lavoratori della «gig economy» a quelli dei dipendenti subordinati. La Corte di Appello sembra avere valorizzato la previsione del Jobs Act che, a tal riguardo, prevede l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a tutte quelle prestazioni di lavoro 1) esclusivamente personali, 2) continuative, 3) le cui modalità di svolgimento sono organizzate dal committente anche con riguardo e tempi e luoghi di lavoro (art. 2, comma 1, dlgs n. 81/2015). Più di recente, continua l’Inps, a febbraio 2021, la Corte Suprema di Londra ha emesso una sentenza che potrebbe fare scuola, per lo meno nel Regno Unito: gli autisti del colosso californiano Uber sono dipendenti a tutti gli effetti e devono quindi avere diritto a ferie pagate, malattia e un salario minimo. Tutte cose finora non previste per i conducenti di Uber in quanto pagati a prestazione. Nella sentenza è scritto che è necessario fornire protezione sociale certa a individui che, di fatto, non hanno alcun potere nelle trattative riguardo le loro condizioni di lavoro.

Si muovono gli ispettori. Nello stesso periodo, si legge ancora nel Rapporto dell’Inps, al termine di attività di controllo condotte con il coordinamento della Procura della Repubblica di Milano per i profili penalistici e dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (Inl) per quanto riguarda l’inquadramento dei rapporti di lavoro, sono stati notificati verbali di accertamento a quattro società di gestione delle attività di consegna a domicilio: nell’analizzare i meccanismi di funzionamento dell’algoritmo che, tramite app aziendale dedicata, gestisce le prestazioni lavorative dei rider, è emerso che il modello organizzativo è standardizzato per tutte le società interessate e del tutto simile a quello del lavoro subordinato. Le piattaforme, secondo gli esiti degli accertamenti, sembrano «gestire» l’accesso alle prenotazioni delle fasce orarie di lavoro, la tempistica delle consegne, le modalità di pagamento da parte del cliente. Secondo l’Inps in conseguenza di tali controlli c’è da attendersi una differente evidenza numerica nelle prossime rilevazioni sui dati della «gig economy» che, per ora, è ancora modestissima. A tre anni di distanza (si veda tabella), l’analisi esplorativa per 50 società (Addlance, Airbnb, Amazon Mechanical Turk, Bemyeye, Blablacar, CrowdFlower, Deliveroo) appartenenti alle grandi categorie che compongono la «Gig Economy», porge evidenze ancora esigue. Ad esempio, da 22 dell’anno 2017 sono passate a 29 (+7) le società «senza lavoratori».

E in Italia? Secondo l’Inps, le (ormai numerose) indagini sulla «gig economy» sembrano tutte confermare le preoccupazioni sull’esistenza di una più o meno ampia fetta di lavoratori senza tutele. Tra queste l’indagine Plus (Participation, Labour, Unemployment, Survey), che è una rilevazione campionaria nazionale condotta dall’Inapp con l’obiettivo di analizzare la composizione di alcuni target del mondo del lavoro, tra cui le donne, i giovani, gli over 50 ed altri ancora. La VII indagine Plus (condotta nel 2018 su 45 mila rispondenti, e divulgata nel 2019) ha incluso un modulo ad hoc sulla «gig economy» da cui è emerso che circa lo 0,5% di tutti i residenti in Italia ha effettuato servizi tramite piattaforma digitale. A proposito della «insicurezza economica», dall’indagine i lavoratori su piattaforma emergono con un profilo più simile ai disoccupati che ai lavoratori (dipendenti o autonomi), a conferma di una situazione di fragilità. Nell’ambito della «Rilevazione sulle forze di lavoro» dell’Istat, i primi passi sul «lavoro mediato da piattaforma digitale» sono stati mossi nell’anno 2019. Nella nuova rilevazione del 2021, che recepisce le indicazioni dell’Ue, è inclusa una breve sezione dedicata ai «digital gig workers». I primi risultati dovrebbero essere pubblicati nel 2022. Per l’Inps, in conclusione, è importante definire il perimetro della «gig economy», prima di tutto per il riconoscimento di diritti e contribuzioni/prestazioni ai lavoratori, ma anche per una più corretta misurazione del Pil (prodotto interno lordo).

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