La crisi post pandemia rende ancora più evidenti alcune caratteristiche salienti e strutturali della società e dell’economia italiana. Di norma, il pil è quasi piatto; con la crisi scende tra il 5 e il 10%, in gran parte per i minori consumi, -4/5%, il resto per il calo dell’export e degli investimenti. Scende meno, tra 1-2%, il potere d’acquisto, se tengono gli stipendi pubblici e grazie all’inflazione nulla. L’altra faccia della medaglia è l’aumento del risparmio, in particolare dei depositi bancari, +6% circa. La Banca d’Italia, periodicamente, decanta come la ricchezza privata degli italiani, in immobili e altri investimenti, cresca. Fin qui, però, sono cifre totali. Ma come stanno davvero le persone? Per dare un po’ di colore, bisognerebbe usare un denominatore, come il numero di abitanti, meglio ancora se scomposti in sottoinsiemi. Ovviamente anche le medie sono imprecise, dei polli di Trilussa c’è chi ne mangia due e chi nessuno, ma un po’ servono. Innanzitutto, serve ricordare che da diversi anni a questa parte gli abitanti in Italia calano nell’ordine di 100 mila l’anno. I migranti in ingresso, tra 250 e 500 mila l’anno, in media circa 300 mila, non compensano il saldo tra morti e nascite. Da alcuni anni, poi, emigrano all’estero 100-150 mila persone l’anno, per lo più giovani e in età lavorativa. Prima osservazione: senza migranti in entrata, il calo strutturale della popolazione sarebbe vicino all’1% all’anno. Poiché il pil è fatto per il 70-75% da consumi, è facile capire come il prodotto interno lordo italiano abbia il freno a mano tirato o faccia come il gambero: se la popolazione scende, consumi e pil vanno dietro. D’altro canto, se il pil fa zero o poco più, come negli anni passati e la popolazione scende dell’1%, il pil medio pro capite aumenta. Se poi si considerano le classi di età della popolazione, si comprendono ancora meglio gli effetti sul pil. In Italia la popolazione sopra i 65 anni, che inevitabilmente consuma meno alimenti, vestiti, etc, è superiore al 25% del totale. In Germania è di poco meno del 20% (anche perché nella seconda guerra mondiale sono morti molti più giovani e adulti che avrebbero procreato negli anni 50, 60 e 70); impietoso il confronto con gli Usa, che hanno un’età media della popolazione inferiore di quasi 10 anni alla italica. È probabile che molti ispano e afroamericani abbiano redditi e stock di ricchezza bassi, mentre quasi l’80% delle famiglie italiane ha l’abitazione di proprietà e spesso una seconda casa. Ma ben diversa è anche la fame, in tutti i sensi, delle diverse etnie e classi di età della popolazione, che contribuisce alla demografia e al pil. Poiché non si vedono segnali che a breve inducano gli italiani a modificare lo statu quo, si può prevedere che scenderà ancora la popolazione in età fertile e di lavoro; quindi, meno redditi e meno consumi. In compenso, molti odierni 30 e 40enni, i figli dei figli del boom, erediteranno case e conti correnti da genitori, nonni e zii. Sempre prendendo le medie con le molle, saranno mediamente più ricchi, ma con stipendi modesti. Sarà anche sempre più difficile sostenere con il gettito fiscale ordinario l’attuale stato sociale, in primis pensioni e sanità. Anche se oggi, a emergenza speriamo finita, si vorrebbe assumere nuovi medici; con soldi che non ci sono e meno ancora ci saranno in futuro, se non richiedendoli all’Europa. In compenso, ci sarà un grosso stock di ricchezza privata, che farà gola ai governi che verranno. Tra gli attuali partiti, l’aggettivo social-comunista è scomparso. Ma una nazione dove sempre più persone dipendono dal sostegno pubblico e dove la ricchezza privata serve a poco o sarà tassata, a quel modello finirà per ispirarsi. A meno che, essendo la qualità della vita e l’aspettativa di vite italiane ben superiori alla media, non la si trasformi in un giardino fiorito e aperto al resto del mondo. (riproduzione riservata)

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