di Carlo Pelanda
Nel lontano 1989 chi scrive gelò i colleghi del gruppo di studio nominato dal Segretario generale dell’Onu per definire uno standard globale di prevenzione contro le catastrofi ambientali (Un-Idndr) quando mostrò loro che la probabilità di riuscire a convincere le nazioni ad applicare la prevenzione stessa era molto ridotta. Frank Press, geofisico, autorevole presidente della statunitense National Academy of Science e del gruppo, sobbalzò: «proprio lei ha perfezionato un modello che dimostra la razionalità di spendere 1 in prevenzione per risparmiare 10 in caso di disastro».

Ma i test fattuali condotti in parecchie nazioni mostravano che se il pericolo non fosse stato evidente non ci sarebbe stato il consenso sufficiente per modifiche precauzionali dei sistemi. Pertanto chi scrive raccomandò di spostare l’attenzione dalla prevenzione statica a quella dinamica, puntando sulla rapidità dell’apprendimento sia istituzionale sia di massa.

Ora i pericoli – già classificati dalla scienza da venti anni – stanno diventando evidenti. La pandemia in atto è un segnale chiaro che l’aumento della massa antropica sul pianeta e la sua mobilità la espone ad una maggiore varietà futura di rischi medici subito convertibili in economici. I dati climatici, per esempio spettacolarizzati da distruttive bombe d’acqua, mostrano che l’ambiente costruito, e quello artificializzato in forma di agricoltura, è vulnerabile alle variazioni in atto in quello naturale. Ciò sta portando a maggiori allocazioni di risorse verso la prevenzione.

Ma le politiche di prevenzione mostrano difetti, per esempio: puntare troppo sulla de-carbonizzazione, per ridurre l’effetto serra riscaldante, e troppo poco sull’eco-adattamento; difendersi da uno specifico pericolo dopo che si è attualizzato senza valutare la varietà degli altri possibili. Ciò è semplificabile con una foto: una casa ricostruita in modo antisismico dopo il terremoto del Friuli (1976) che galleggia integra in un flusso alluvionale, sradicata.

Evidentemente c’è una mancanza di modelli sistemici, cioè di grandi matrici, aggiornabili dinamicamente, che trattino il complesso dei pericoli e mostrino soluzioni integrate ed economicamente efficienti, per ridurli.

Se esistessero, sarebbe possibile comunicare un pericolo agganciandolo alla soluzione e grazie a questo difendere la fiducia economica anziché spaventare e per questo dover tacere o eco-negare. Il punto: per prevenire c’è bisogno di creare una visione sistemica che integri le scienze settoriali e orienti le politiche. Senza di questa le analisi di rischio sono troppo incomplete.

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