Fineco ha acceso un faro sulle commissioni di performance, ritenute poco sostenibili. Ma tale posizione incontra per ora lo scetticismo dell’industria del risparmio gestito. Anche perché l’Esma si è già espressa
di Oscar Bodini
Fineco Asset Management ha iniziato a segnalare ai clienti con un’apposita bollinatura – ossia con un elemento grafico immediatamente riconoscibile – i propri fondi d’investimento che non applicano commissioni di performance. La scelta è legata alla volontà di estendere il concetto di sostenibilità, che in un’ottica di rispetto del cliente non può prescindere dal proporre un profilo commissionale considerato equo. Per corroborare tale fatta Fineco ha anche ricordato che nel 2019 i caricamenti di performance applicati sui fondi distribuiti in Italia sono aumentati di 800 milioni e di 90 milioni solo nel primo trimestre 2020 nonostante la volatilità innescata dal Covid-19. Le modalità con cui questi costi vengono applicati in Italia sono «poco trasparenti» e si traducono in «uno strato di commissione aggiuntiva a danno di clienti e consulenti», rincara la dose Fabio Melisso, ceo di Fineco Asset Management, parlando con Milano Finanza. In particolare, «orizzonti temporali troppo brevi con cui si calcolano questi costi aggiuntivi e benchmark poco sfidanti hanno reso questi caricamenti poco nobili e sostenibili».

Accolta con scetticismo dall’industria del risparmio gestito, la mossa di Fineco ha avuto come conseguenza quella di rianimare il dibattito su questa tipologia di commissioni. Una forma di remunerazione che gratifichi una buona gestione in grado di dare ai clienti risultati superiori al mercato – questa la convinzione diffusa – è tutt’altro che sfavorevole ai sottoscrittori. Sono piuttosto alcune storture nella sua applicazione – benchmark compositi e di difficile lettura, archi temporali contenuti e applicazione anche a fronte di risultati negativi – a destare perplessità, ma su alcuni di questi aspetti il fronte appare diviso.

Ceduta tre anni fa la fabbrica prodotto Pioneer Investment, oggi Unicredit si trova in una condizione di terzietà nei confronti del risparmio gestito e del tema in discussione. «In origine le commissioni di performance erano nate con una finalità valida: stimolare il gestore a fare meglio del mercato e da questo punto di vista chiedere a un investitore un contributo ha senso», spiega a Roberta Rudelli, head of Fund Selection di Cordusio Sim della fiduciaria di gruppo, Cordusio, che segue clienti con patrimoni a partire da 5 milioni di euro. La manager sottolinea tuttavia che questo genere di costi non contempla standard di mercato e pertanto per la clientela è «complesso capire quali sono i limiti oltre cui scattano, con che frequenza avviene la rilevazione e per quale motivo in molti casi devono essere versate anche a fronte di risultati negativi». L’analisi dei fondi è uno dei fronti su cui la società eroga consulenza: non si limita a valutare i costi di performance applicati su un prodotto ma la struttura di pricing nella sua interezza: se ritenuti eccessivi, pur a fronte di buoni risultati di gestione, l’orientamento è di rivolgersi ad altre share class.

Tra gli scettici figura Santo Borsellino, head of Investments & Asset Management Corporate Governance & Institutional Relations delle Generali. «Che cosa è sostenibile? A mio parere lo è ciò che rende contento il sottoscrittore nel lungo termine, ossia una crescita del patrimonio investito nel tempo. In questo senso le commissioni di performance – dovute solo se il money manager riesce a fare meglio del mercato – tendono ad allineare l’interesse di gestore e sottoscrittore». Borsellino ricorda inoltre che già con il regolamento di Bankitalia del 2015 e con le linee guida rilasciate dall’Esma nell’aprile scorso i regulator hanno normato strettamente le performance fee a pieno titolo come elemento di compensazione delle sgr. Secondo il manager del Leone, la presa di posizione della super-Consob europea su questo tema ha tagliato definitivamente le gambe a quanti «cercavano di incamerare incentivi mordi-e-fuggi applicando commissioni di performance su archi temporali brevi». Quanto all’applicazione di questi costi a fronte di performance negative, Borsellino ritiene che «se il gestore è riuscito a salvaguardare anche parzialmente il capitale dei clienti rispetto agli scossoni di mercato, ha fatto il suo dovere. E dunque va remunerato».

Sulla stessa lunghezza d’onda è Matteo Serio, direttore commerciale di AcomeA. «Non avendo sfere di cristallo per prevedere come si muoveranno i mercati, il nostro impegno con il cliente non può che essere di riuscire a far meglio, in qualsiasi condizione. Facendoci quindi remunerare per la performance assoluta nel caso dei fondi flessibili oppure relativa per i fondi che prevedono benchmark. E, solo per questi ultimi, talvolta anche con risultati negativi assoluti». Tutti i fondi della casa applicano costi di performance che utilizzano la clausola dell’high watermark, senza resettarla mai. «In altre parole, incassiamo queste fee solo quando e se riusciamo a segnare nuovi massimi assoluti a seconda della natura del fondo, per tutti i clienti». (riproduzione riservata)

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