Soglie bloccate se il giudice applica le tabelle di Milano
di Gabriele Chiarini

Quando il giudice di merito sceglie di applicare le «tabelle» di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale da uccisione di un prossimo congiunto, non può scendere al di sotto né salire al di sopra delle soglie, rispettivamente minime e massime, ivi previste. Lo ha confermato la Cassazione con ordinanza n. 13269 dell’1 luglio 2020, che però suscita un altro e più interessante quesito sui possibili scenari interpretativi destinati a prevalere in subiecta materia: è davvero giustificato il primato riconosciuto al sistema milanese? La risposta è: assolutamente no. Almeno con riguardo al danno da morte, la tabella di Milano appare vaga e approssimativa, e merita di essere sostituita dall’analogo strumento elaborato dal Tribunale di Roma, che è obiettivamente preferibile per una serie di ragioni che cercheremo sinteticamente di delineare. La stima del pregiudizio da perdita del rapporto parentale, si sa, è demandata ad un sistema equitativo puro, sostanzialmente fondato sulla valutazione discrezionale del giudice di merito. Nondimeno, per rendere omogenee e prevedibili le decisioni, si è sempre cercato di utilizzare criteri standardizzati di quantificazione. Sin dal 2011, con la nota sentenza n. 12408, la Suprema Corte ha individuato detti criteri nella «tabella» diffusa dal Tribunale di Milano un paio d’anni prima, che avrebbe dovuto indicare, per l’innanzi, valori reputati «equi», vale a dire idonei a garantire parità di trattamento, perciò applicabili in tutte le fattispecie ordinarie, prive di specificità meritevoli di trattamento differenziato (in aumento o in diminuzione).
A ben vedere, in quell’occasione si faceva questione di liquidare il danno non patrimoniale per una (gravissima) invalidità, ma la Cassazione ritenne di estendere il principio anche alla diversa ipotesi del danno da uccisione del congiunto, in una sorta di obiter dictum che è stato, poi, tralatiziamente recepito ed acriticamente applicato quale principio generale.

Non senza qualche perplessità, tuttavia: tanto è vero, ad esempio, che il Tribunale di Roma ha sempre continuato ad utilizzare le proprie tabelle, non condividendo alcuni criteri posti a base del sistema realizzato dall’Osservatorio di Milano. Inoltre, la stessa Corte – con la sentenza n. 29495 del 2019 – ha affermato esplicitamente che il sistema tabellare milanese non costituisce concretizzazione paritaria, su tutto il territorio nazionale, dell’equità per risarcire il danno da sofferenza causato dalla lesione del rapporto parentale per morte di un congiunto, che è ontologicamente diverso da quello causato da una lesione biologica della propria integrità psico-fisica. Bene, per la liquidazione del danno da perdita parentale le tabelle milanesi prevedono una posta risarcitoria compresa tra un minimo ed un massimo (in disparte il bisticcio per cui, nell’edizione 2018, il minimo era stato inizialmente designato come valore monetario «medio», poi giustamente corretto in «base»). Esse non esplicitano, tuttavia, i parametri da utilizzare per l’individuazione concreta dell’importo dovuto nell’ambito della forbice risarcitoria, lasciando così la sua effettiva determinazione alla discrezionalità del giudice, che talvolta può sfociare nell’arbitrio. Al contrario, le tabelle romane esplicitano i criteri liquidatori da utilizzare (in particolare: l’età della vittima, quella del congiunto avente diritto al risarcimento, la convivenza tra i due, la composizione del nucleo familiare), attribuendo agli stessi una specifica valenza ponderale. Ciò consente di individuare con una certa precisione l’importo spettante al superstite per la morte del congiunto, così assicurando omogeneità nel risarcimento e, al contempo, prevedibilità degli importi risarcibili. Dal che consegue, peraltro, un incentivo alla definizione stragiudiziale delle vertenze risarcitorie, con benèfici effetti deflattivi del contenzioso.

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