COVID-19 E ASSICURAZIONI

Autore: Marco Rossetti
ASSINEWS 321 – luglio-agosto

1.L’assicurazione contro gli infortuni Ha suscitato un certo dibattito il problema se la persona che abbia stipulato un’assicurazione “della persona” (polizza infortuni, polizza malattia, polizza spese sanitarie) abbia diritto all’indennizzo, per essersi ammalata di Covid-19.
Per l’assicurazione volontaria contro le malattie e per l’assicurazione di rimborso delle spese sanitarie il problema non esiste: l’indennizzo sarà dovuto se l’evento “malattia infettiva” è incluso nei rischi assicurati. L’assicurazione volontaria contro gli infortuni merita qualche parola in più.

1.1. Le condizioni generali dei contratti di assicurazione contro gli infortuni dànno di questi ultimi una definizione così omogenea e così risalente, da esser divenuto un patto “socialmente tipico”, per usare una felice espressione di Cesare Massimo Bianca. L’“infortunio” è infatti immancabilmente definito in qualsiasi polizza come “l’evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni corporali obiettivamente constatabili”.

La “malattia”, nei contratti di assicurazione privata contro il rischio di malattia o di esborsi dovuti a spese sanitarie, è altrettanto tipicamente definita come “ogni obiettiva alterazione dello stato di salute non dipendente da infortunio”. Esiste dunque a mio avviso un vero e proprio uso negoziale ex art. 1374 c.c., o quanto meno una pratica interpretativa ex art. 1368 c.c., secondo cui “infortunio” e “malattia” nelle polizze di assicurazione private sono definizioni legate da un nesso di esclusione reciproca: quel che è infortunio non può essere malattia, e viceversa.

La differenza tra il rischio del primo tipo e quello del secondo tipo non sta nelle conseguenze. Anche un infortunio può provocare una malattia (una frattura esposta può provocare l’osteomielite); così come una malattia può provocare un infortunio (un epilettico può cadere a terra in preda alle convulsioni, e procurarsi una frattura). La differenza tra il rischio assicurato nei due tipi di contratti suddetti sta nella causa del pregiudizio.

Tanto la polizza infortuni, quanto la polizza malattia indennizzano un pregiudizio alla salute. Quel che cambia tra l’una e l’altra è la genesi di quel pregiudizio. Nell’assicurazione infortuni il pregiudizio deve essere provocato da una “lesione” violentemente provocata ab externo; nell’assicurazione malattia il pregiudizio non è causato da un atto violento, né da una “lesione” dell’integrità psicofisica. In conclusione, una generale pratica interpretativa ex art. 1368 c.c., nei contratti di assicurazione della persona la malattia è una cosa, e l’infortunio un’altra; ed una infezione virale rientra nella prima categoria.

1.2. Chiediamoci ora se queste conclusioni debbano essere rivedute alla luce: a) della giurisprudenza formatasi in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro; b) di quanto previsto dall’art. 42, comma 2, d.l. 17.3.2020 n. 18, che ha esteso la copertura assicurativa apprestata dall’Inail anche ai contagi da Covid avvenuti in occasione di lavoro.

1.2.1. Sotto il primo profilo, va ricordato che il testo unico dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro (d.p.r. 30.6.1965 n. 1124) definisce l’in fortunio sul lavoro come quello dovuto a “causa violenta”: una definizione, dunque, prossima a quella contenuta nella quasi totalità dei contratti assicurativi.

Ed in più d’una occasione si è posto il problema di stabilire se l’infezione contratta dal lavoratore in occasione di lavoro (il caso tipico era quello del medico o dell’infermiere addetto al trattamento di malati contagiosi o di plasma) rientrasse tra gli infortuni indennizzabili.

La giurisprudenza di legittimità ha sempre risposto “sì”, ripetendo (spesso tralatiziamente) il seguente principio: “causa violenta di infortunio sul lavoro è anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinano l’alterazione dell’equilibrio anatomico-fisiologico, sempreché tale azione – pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo – risulti, anche con il ricorso a presunzioni semplici, in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Si tratta d’un principio estensibile alla materia dell’assicurazione privata contro gli infortuni? No, per due ragioni. La prima ragione è che quel principio ha una genesi e una storia peculiare. Sino al 1988, come noto, il lavoratore che avesse contratto una malattia professionale aveva diritto all’indennizzo da parte dell’Inail solo se la malattia da cui era affetto rientrava nell’elenco normativamente previsto. In quell’epoca, dunque, stabilire se il lavoratore avesse patito un infortunio o una malattia era decisivo ai fini dell’indennizzo.

Gli infortuni erano indennizzabili; le malattie non tabellate, no. Di fronte a questo sbarramento normativo la giurisprudenza adottò la tecnica dell’aggiramento: al fine di apprestare tutela al lavoratore, ed evitare uno sbarramento oggettivamente iniquo, inventò il principio sopra trascritto, secondo cui il contagio sarebbe un “infortunio sul lavoro”.

Poi, nel 1988, la Corte costituzionale dichiarò illegittimo l’art. 38, comma 2, d.p.r. 1124/65, nella parte in cui non prevedeva che l’assicurazione contro le malattie professionali fosse obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate al testo unico (Corte cost., 18-02-1988, n. 179, in Foro it., 1988, I, 1031). Fu la fine della storia: era divenuto ormai in gran parte inutile accapigliarsi a stabilire se il danno subito dal lavoratore fosse dovuto ad una malattia o ad un infortunio.

Poiché, tuttavia, nel 1988 ancora pendevano processi iniziati prima della pronuncia della Corte costituzionale, la Corte di Cassazione continuò a ribadire – formalmente – il vecchio principio secondo cui il contagio infettivo è un “infortunio” e non una malattia.

Ma era ormai un escamotage divenuto inutile, e lo ammise apertamente la stessa Corte di legittimità. Si legge infatti nella motivazione di Cass. civ., sez. lav., 13-03-1992, n. 3090, in Mass. giur. lav., 1992, 234. Quella sentenza aveva ad oggetto la vicenda di un lavoratore che, contratta una malattia infettiva sul luogo di lavoro, qualificò l’accaduto come “infortunio” e chiese la condanna dell’Inail al pagamento dell’indennizzo da infortunio.

E la Corte osservò a tal riguardo: “la prospettazione data dalle parti e dal Tribunale ai fatti di causa come infortunio sul lavoro è stata certamente suggerita dalla considerazione che, fino alla sentenza n. 179 del 1988 della Corte Costituzionale, vigeva il sistema esclusivamente tabellare delle malattie professionali, per cui l’epatite virale, non essendo compresa nella apposita tabella, non poteva essere considerata malattia professionale e godere perciò, come tale della tutela assicurativa”.

Se poi si passano in rassegna le motivazioni, e non le massime, delle decisioni che, dopo l’intervento della Corte costituzionale, si sono occupate del problema qui in esame, ci si imbatte in molte sorprese, e si scopre che il principio pur molte volte massimato (secondo cui l’infezione virale contratta in occasione di lavoro sarebbe un “infortunio”) non è affatto la regula iuris posta a fondamento delle decisioni che l’hanno proclamato. Una breve rassegna in ordine cronologico lo dimostrerà.

1.2.2. Si è già detto di Cass. 3090/92: in quel caso il processo di merito era iniziato prima del 1988, e quindi prima della sentenza della Corte costituzionale sopra ricordata. Qui l’affermazione del principio “contagio=infortunio sul lavoro” servì dunque ad evitare l’applicazione d’una norma costituzionalmente illegittima. In seguito, il principio “contagio=infortunio sul lavoro” venne ribadito da Cass. civ., sez. lav., 27-06-1998, n. 6390, in Riv. infortuni, 1998, II, 71 (il caso era quello d’un medico pubblico dipendente contagiato dall’epatite).

Ma in quel caso non solo il ricorso del lavoratore venne accolto per difetto di motivazione sul nesso causale tra lavoro ed infortunio (e dunque per una ragione che non tocca il nostro problema); ma per di più dallo “Svolgimento del processo” si apprende che nelle fasi di merito le parti avevano discusso della natura professionale o meno “della malattia”, e non d’un infortunio. Dunque il principio qui in esame in quella sentenza fu solo un obiter.

Fu poi la volta di Cass. civ., sez. lav., 01-06-2000, n. 7306, in Arch. civ., 2000, 817: in questo caso però il contagio avvenne mediante la puntura del lavoratore con un ago infetto: e dunque nessun dubbio poteva esservi che sussistesse una causa violenta ed esterna, rappresentata dal ferimento con l’ago. Una sentenza, dunque, inutilizzabile nel ben diverso caso in cui il contagio sia avvenuto per altra via, non traumatica. In seguito fu la volta di Cass. civ., sez. lav., 08- 04-2004, n. 6899, in Ragiusan, 2004, fasc. 248, 209, che anche in questo caso formalmente ribadì il principio “contagio=infortunio sul lavoro”.

Ma nella motivazione si afferma una cosa ben diversa, e cioè che è inutile continuare a discorrere di se l’infezione sia o no una “causa violenta”, quando basterebbe qualificarla come “malattia professionale” per evitare questo scoglio. Si afferma infatti nella motivazione: “pur vertendosi [nel caso di specie] in materia di denuncia di infortunio sul lavoro (per le modalità di aggressione del virus), è necessario tener presente anche la giurisprudenza di questa Corte in materia di malattie professionali non tabellate, per quanto riguarda la esistenza di un collegamento con l’attività lavorativa prestata, considerato che l’accertamento in concreto della causa violenta diviene in tale prospettiva irrilevante”.

Ancora, Cass. civ., sez. lav., 28-10-2004, n. 20941, Riv. infortuni, 2004, II, 72, la cui massima ufficiale afferma il principio “contagio=infortunio sul lavoro”, in realtà s’è occupata di ben altro, dal momento che dalla motivazione apprendiamo che il lavoratore aveva formulato una “domanda diretta ad ottenere dall’Inail la costituzione della rendita per malattia professionale”. Fu poi la volta di Cass. civ., sez. lav., 12-05-2005, n. 9968, in Impresa, 2005, 1089, anch’essa massimata ufficialmente come se avesse affermato il principio “contagio=infortunio sul lavoro”.

Ma in quel caso non si discuteva affatto se spettasse l’indennizzo per infortunio a chi si fosse infettato in occasione di lavoro, ma di un problema ben diverso: e cioè se fosse legittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto di un dipendente ammalatosi di epatite: e fu solo a tal fine che, in quella sentenza, la S.C. equiparò (ovviamente e giustamente) la malattia all’infortunio.

1.2.3. In conclusione, è ben vero che esistono molte massime ufficiali di decisioni di legittimità dalle quali risulterebbe che per la Corte di Cassazione il contagio del lavoratore in occasione di lavoro costituisce un “infortunio”.
E tuttavia:
a) quel principio sorse nel 1982 al solo fine di garantire l’indennizzo ai lavoratori ammalatisi di malattie non tabellate;
b) quell’escamotage divenne inutile dopo corte cost. 179/88, che dichiarò illegittimo l’art. 38 d.p.r. 1124/65;
c) dopo la sentenza della Corte Costituzionale il principio venne ribadito solo tralatiziamente;
d) la maggior parte delle sentenze successive al 1988 che hanno ribadito quel principio, lo hanno fatto solo obiter dictum.

Ciò vuol dire che quel principio ebbe una genesi storica ben precisa; che oggi le ragioni per cui venne escogitato di esso sono divenute superflue; che in ogni caso quelle ragioni mai potrebbero essere estese ai patti tra privati contenuti in un contratto di assicurazione contro gli infortuni.

1.2.4. Veniamo ora alla novità introdotta dal d.l. 18/20. L’art. 42 d.l. 18/20 è la norma che ha esteso la copertura prestata dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro all’ipotesi di contagio da Covid-19.

Tale norma stabilisce che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (…) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato (…). I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa (…). La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.

La norma ha allarmato alcuni commentatori, per avere equiparato il contagio da Covid-19 all’infortunio sul lavoro ai fini delle prestazioni dell’assicurazione sociale. Ci si è chiesti, in particolare, se tale previsione riverberi effetti sull’interpretazione dei contratti di assicurazione privata contro gli infortuni, e se di conseguenza l’assicurato che abbia contratto un’infezione (od i suoi congiunti, in caso di decesso) possano pretendere l’indennizzo previsto dalla polizza.

A tale quesito i primi commentatori hanno dato risposta negativa.1 La risposta è certamente da condividere. Anzi, a mio sommesso avviso il problema delle interferenze tra l’art. 42 d.l. 18/20 e l’assicurazione privata contro gli infortuni è un problema che non esiste e non potrà mai esistere. Per molte ragioni. In primo luogo, per effetto del principio di autonomia negoziale di cui all’art. 1322 c.c..

Le parti di un contratto sono sovrane nel definirne l’oggetto e i patti. Sicché, adottata per contratto una data definizione di “infortunio”, essa è insensibile alle definizioni che di tale lemma il legislatore volesse dare, per altri istituti e ad altri fini. In un contratto le parti sono libere di definire “infortunio” anche lo smarrimento del proprio animale d’affezione, se così volessero: e tale patto avrebbe “forza di legge” ai sensi dell’art. 1374 c.c..

Pertanto, una volta che la polizza infortuni definisse l’infortunio come “l’evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni corporali”, ne resta esclusa la malattia infettiva, perché manca l’elemento della “violenza” e quello della “lesione”: e nulla rileva che il legislatore a tutt’altri fini abbia inscritto le conseguenze del contagio tra le garanzie apprestate dall’Inail. In secondo luogo, l’art. 42 d.l. 18/20 non può riverberare effetti sulle polizze private alla luce delle norme e dei princìpi che regolano l’interpretazione dei contratti da un lato, e della legge dall’altro.

Sotto il primo profilo, il contratto va interpretato secondo l’intenzione comune dei contraenti (art. 1362 c.c.): ed è contrario a tale principio pretendere che un evento (la malattia infettiva) mai preso in considerazione dalle parti al momento della stipula, possa rientrare nel rischio assicurato a causa di una norma successiva alla stipula, e che non si occupa delle polizze private contro gli infortuni.

Sotto il secondo profilo (interpretazione della legge) è principio tanto antico quanto pacifico che le norme si interpretano in base al loro scopo per come reso evidente dalla connessione delle parole (interpretazione finalistica): e l’art. 42 d.l. 18/20 ha lo scopo di estendere la tutela dei lavoratori al rischio di contagio, non quello di modificare l’oggetto delle polizze private contro gli infortuni.

In terzo luogo, l’art. 42 d.l. 18/20 non può riverberare effetti sulle polizze private contro gli infortuni in virtù del principio di irretroattività della legge, ovvio essendo che una legge sopravvenuta, in mancanza di norme intertemporali (che nel caso di specie non sussistono) non potrebbe disciplinare i contratti anteriormente stipulati.

Ho voluto lasciare per ultimo il quarto ed a mio avviso decisivo argomento: il principio di relatività e contestualizzazione delle definizioni giuridiche. Chiedendo venia al lettore se sono costretto a sintetizzare in poche battute concetti molto alti e nobili, ricorderò che nel mondo del diritto esistono definizioni generali e definizioni particolari. Le prime sono valide in utroque, le seconde sono valide in relazione allo scopo.

Così, per fare un esempio: la nozione di “interessi” di cui all’art. 1282 c.c. resta valida quale che sia il settore dell’ordinamento nel quale debba discutersene (contratti, appalti di opere pubbliche, divisione ereditaria, crediti tributari, alimenti, e via dicendo).

La nozione di “buona fede”, per contro, può avere molteplici accezioni: altra è la “buona fede” del possessore (che consiste nell’ignoranza di ledere l’altrui diritto: art. 1147 c.c.); ben altra cosa è la “buona fede” nell’esecuzione dei contratti (che consiste nell’obbligo di attivarsi per salvaguardare l’interesse della controparte: art. 1375 c.c.).

Allo stesso modo, in materia processuale, il Regolamento UE 1215/12 chiama “competenza” la giurisdizione, ma nessuno dubita che per il diritto nazionale la competenza sia una cosa, e la giurisdizione un’altra. La norma comunitaria definisce “competenza” quella che noi chiamiamo giurisdizione ai soli fini e nel solo àmbito del riparto di giurisdizione tra i giudizi degli Stati membri dell’UE.

A nessuno è mai venuto in mente anche solo di sospettare che quel regolamento potesse riverberare effetti sulle norme del c.p.c. in tema – ad esempio – di eccezione di giurisdizione o regolamento di giurisdizione. Allo stesso modo, l’art. 42 d.l. 18/20 è norma che alla stregua dei princìpi sommariamente ricordati (princìpi, è bene ricordare, millenari) non si occupa affatto dei contratti privati di assicurazione. È norma che amplia l’oggetto dell’assicurazione sociale, e qualunque statuizione o definizione essa contenga, questa va letta e riguardata in relazione allo scopo, e non ad altri fini.

Pretendere che le polizze infortuni debbano coprire il rischio di contagio da Covid, in assenza di qualsiasi patto contrattuale, sol perché esiste l’art. 42 d.l. 18/20 è affermazione che getta nel cestino della carta straccia secoli di civiltà giuridica.

1.3. Discorso diverso va fatto per le polizze in cui il rischio assicurato contenesse una relatio al testo unico dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. Si immagini, ad esempio, un’assicurazione privata integrativa contro gli infortuni, stipulata da una azienda sanitaria a beneficio dei propri dipendenti, in cui si stabilisce che l’assicuratore si obbliga ad indennizzar gli “infortuni” di cui al d.p.r. 30.6.1965 n. 1124.

Oppure si pensi ad una assicurazione della responsabilità civile del datore di lavoro verso i dipendenti o vero l’Inail (in sede di regresso), nella quale si stabilisca che l’assicuratore terrà indenne l’assicurato di quanto questi possa essere costretto a pagare al lavoratore o all’assicuratore sociale in conseguenza di un “infortunio” di cui al d.p.r. 1124/65, cit..

Qui il problema va così ricostruito: il contratto contiene una relatio ad una norma di legge.
Il rinvio di un contratto ad una norma di legge può essere di due tipi: recettizio o non recettizio. È recettizio quando la norma richiamata viene incorporata nel contratto e diventa essa stessa clausola contrattuale per volontà delle parti.

In tal caso, tutte le successive modifiche di quella norma non avranno alcun effetto sul contenuto del contratto. Il rinvio sarà invece non recettizio quando è volontà delle parti non già prendere una norma e inserirla nel contratto trasformandola in clausola contrattuale, ma demandare a quella norma la disciplina del contratto.

In tal caso la norma non viene “incorporata” nel contratto, e tutte le successive modifiche di essa comporteranno ipso facto una modifica dei patti contrattuali. Stabilire se il rinvio ad una norma di legge contenuto in una clausola contrattuale sia recettizio o non recettizio è il risultato dell’interpretazione del contratto, da compiere caso per caso.

Tuttavia, poiché tale operazione va compiuta avendo riguardo alla volontà delle parti, e poiché nei due esempi suddetti la volontà delle parti è apprestare al lavoratore od al datore di lavoro una copertura coincidente nei presupposti a quella prevista dal d.p.r. 1124/65, credo che tutte le modifiche testuali o non testuali del suddetto testo unico (come nel caso dell’art. 42 in esame) riverbereranno effetti anche sui contratti assicurativi che ad esso facciano riferimento.

1.4. Il tema dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, per effetto della normativa emergenziale, porrà comunque qualche problema di fatto-diritto (non di puro diritto) agli interpreti.
Tra gli altri, ne scorgo due più evidenti:
a) a quali condizioni possa ritenersi “infortunio in occasione di lavoro” quello sofferto dal lavoratore autorizzato od obbligato a svolgere la propria attività dal proprio domicilio;
b) se l’Inail, una volta indennizzato il lavoratore contagiato dal Covid-19, abbia l’azione di regresso nei confronti del datore di lavoro, ovvero quella di surrogazione nei confronti di terzi.

1.5. Per rispondere al primo quesito basterà rispolverare la sterminata giurisprudenza formatasi circa la nozione di “occasione di lavoro”. Ricorderò qui brevemente che, secondo tale giurisprudenza, l’infortunio avveratosi “in occasione di lavoro” non è quello causato direttamente dallo svolgimento dell’attività lavorativa, ma è quello – da qualunque causa provocato – che il lavoratore avrebbe potuto evitare, se non avesse dovuto svolgere la propria attività lavorativa.

La distinzione, già sottile di per sé, nel caso di lavoro “da remoto” può diventare addirittura umbratile. L’impiegato che, dopo quattro ore davanti al computer, si alzi dal salotto e si rechi in cucina a prendere un caffè, scivolando sul pavimento appena incerato dalla gentile consorte e fratturandosi un femore, potrà dirsi vittima di un infortunio “in occasione di lavoro”?

La risposta ovviamente sarà “no”, perché l’attività causativa dell’infortunio non era funzionale allo svolgimento del lavoro, né altrimenti ascrivibile al datore di lavoro. Potrebbe per contro ritenersi “in occasione di lavoro” l’infortunio sofferto dal lavoratore che, dimorando in un’abitazione su due livelli, per recarsi alla propria postazione di lavoro cada sulla scala interna alla propria abitazione: in questo caso, infatti, l’infortunio non poteva essere altrimenti evitato, se non astenendosi dallo svolgimento dell’attività lavorativa.

Per orientarsi tra le infinite ipotesi che la realtà potrà proporre all’attenzione dei giudicanti credo che il criterio ordinante debba essere ravvisato nella c.d. “occasionalità necessaria” tra la causa dell’infortunio e lo svolgimento del lavoro da remoto. alla luce di tale criterio saranno infortuni “in occasione di lavoro” tutti quelli provocati da rischi che non era possibile non correre, per potere svolgere la prestazione lavorativa.

1.6. Chiediamoci ora se l’Inail, dopo avere indennizzato il lavoratore contagiato da Covid, ai sensi dell’art. 42, comma 2, d.l. 18/20, abbia o possa vere azioni di regresso o surrogazione nei confronti, rispettivamente, del datore di lavoro o di terzi. Il regresso nei confronti del datore di lavoro spetta quando l’infortunio sia dovuto a condotta astrattamente qualificabile come reato.

Ora, in teoria potrebbe anche ipotizzarsi che il datore di lavoro, colposamente trascurando di adottare il necessario distanziamento trai suoi dipendenti, oppure non dotandoli di mezzi di protezione individuale, abbia concausato il diffondersi del contagio (nel senso di non averlo impedito, pur avendo l’obbligo di farlo).

Ma il problema dell’accertamento d’un simile ipotetico reato sarebbe il nesso di causa. L’Inail avrebbe infatti l’onere di provare in giudizio che il lavoratore indennizzato dall’istituto è stato contagiato a causa e in conseguenza della colposa omissione di strumenti di igiene e profilassi da parte del datore di lavoro. Prova alquanto ostica, dal momento che ben difficilmente potrà stabilirsi quando e per quale causa il lavoratore abbia contratto l’infezione.
Tale prova potrebbe essere agevole in un solo caso: quando si sia riscontrato un vero e proprio focolaio all’interno dell’opificio o del luogo di lavoro, sì da far presumere ex art. 2727 c.c. che il mancato distanziamento sia stato la causa “più probabile che non” del contagio.

1 Hazan. Polizza infortuni e Covid-19, spunti di riflessione, in Insurance Daily, 10.4.2020 n. 1733; Mastroroberto, Polizza infortuni e infezione da covid-19 nel d.l. n. 18/20 e nella circolare Inail n. 3675/20, in www.ridare.it.