Daniele Cirioli
L’importo mensile della pensione d’inabilità (euro 287) è “innegabilmente, e manifestamente, insufficiente ad assicurare il minimo vitale”, così violando il diritto al mantenimento garantito a ogni cittadino inabile al lavoro dall’art. 38 della Costituzione. Altre provvidenze, infatti, hanno importi superiori: l’assegno sociale (460 euro), il limite d’impignorabilità della pensione (690 euro) e il reddito di cittadinanza (500 euro più 280 in caso di spese accessorie). A sostenerlo è la corte costituzionale nelle motivazioni alla sentenza n. 152/2020 (si veda ItaliaOggi del 25 giugno) con cui ha dichiarato illegittimo l’art. 38, comma 4, della legge n. 448/2001 nella parte in cui dispone l’incremento della pensione d’inabilità a 651 euro ai soggetti d’età non inferiore a 60 anni (di fatto riconoscendo la misura maggiorata dall’attribuzione, cioè a 18 anni).

La pensione d’inabilità.

La decisione interessa gli invalidi civili destinatari di varie tutele tra cui la pensione d’inabilità, all’età di 18 anni in presenza (appunto) di un’invalidità totale e permanente e di un reddito personale non superiore, nel 2020, a 16.982,49 euro. La pensione, che è corrisposta dall’Inps in 13 mensilità, vale 286,81 euro per l’anno 2020. A partire dal 2002, a seguito della legge Finanziaria n. 448/2001, la pensione d’inabilità viene incrementata al “milione di lire” (651,51 euro mensili quest’anno), quando l’invalido compie 60 anni se in possesso di redditi non superiori a prefissati limiti, oggi pari a 8.469,63 euro per l’invalido solo e a 14.447,42 euro per quello coniugato.

La sentenza.

Tale sistema di tutela, secondo la corte, non è sufficiente a soddisfare il diritto garantito dalla Costituzione, perché un assegno mensile di soli 286,81 euro è manifestamente inadeguato a garantire a persone totalmente inabili al lavoro i “mezzi necessari per vivere”. Dunque viola il diritto riconosciuto dall’art. 38 della Costituzione, secondo cui “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Che non sia sufficiente ad assicurare quel “minimo vitale”, spiegano i giudici, è cosa rinvenibile dalla semplice comparazione con gli importi riconosciuti per altre provvidenze aventi stesse finalità: l’assegno sociale, per esempio, o il più recente reddito di cittadinanza. Per la corte non rileva, inoltre, il fatto che agli invalidi sia concessa, in certe situazioni, anche l’indennità di accompagnamento, poiché diverse sono le funzioni delle due prestazioni. In particolare, la pensione d’inabilità è finalizzata a sopperire alla condizione di bisogno di chi, a causa proprio dell’invalidità, non è in grado di procacciarsi i necessari mezzi di sostentamento; l’indennità di accompagnamento, invece, mira a mettere i soggetti non autosufficienti (in ambito familiare e senza aggravio per le strutture pubbliche) in condizioni esistenziali compatibili con la dignità della persona umana.

L’incostituzionalità.

Relativamente all’incremento della pensione d’inabilità a 561 euro, la condizione anagrafica (60 anni di età) dell’art. 38 della legge n. 448/2001, secondo la corte, è irragionevole perché le minorazioni fisio-psichiche della persona, tali da comportare l’invalidità totale, non sono diverse nella fase anagrafica compresa tra 18 (quando sorge il diritto alla pensione) e 59 anni, rispetto a 60 anni, poiché la limitazione discende a monte da una condizione patologica e non dal fisiologico e sopravvenuto invecchiamento. Anzi è vero il contrario: che lo stato di bisogno di una persona sana si aggravi fisiologicamente con l’anzianità.


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