Il cambiamento climatico entra nelle aule giudiziarie. A oggi sono 28 le giurisdizioni dove hanno avuto luogo, o sono in corso, processi legati al climate change. Si tratta in totale di 1.328 casi. Di questi, 1023 instaurati negli Stati Uniti e 143 nell’Unione europea. Anche il numero dei processi nella regione Asia-Pacifico (124) e, soprattutto, la crescita dei casi che vedono coinvolti Paesi a medio e basso reddito.

Numeri e tendenze sono contenuti in un report del Centre for Climate Change Economics and Policy (Cccep), realizzato in partnership con il Grantham Research Institute on Climate Change and Environment e il Sabin Center for Climate Change Law.
Gli autori evidenziano in maniera chiara l’utilizzo dello strumento processuale al fine di influenzare le attività di governo e il comportamento delle aziende private verso il rispetto dell’ambiente e del clima.

I processi a cui si fa riferimento rientrano in due categorie particolari. Da una parte quelli identificati come “strategici”, casi di rilievo e di pubblico dominio, mirati a sviluppare il dibattito sulla crisi climatica. Dall’altra quelli “di routine”, più frequenti ma meno visibili, nei quali il criterio climatico si è spesso aggiunto all’argomentazione principale dell’iter processuale, per esempio la richiesta di permessi di costruzione. Nell’83% dei casi analizzati chi è chiamato a rispondere sono istituzioni pubbliche, mentre la natura di chi presenta l’esposto tende ad essere più varia, includendo cittadini, aziende private e, sempre di più, organizzazioni non profit.

Tuttavia, segnalano gli autori, a partire dal 2015 stiamo assistendo anche a un’ondata di iniziative nei confronti di attori economici privati, tra i quali spiccano i colossi dell’industria del cemento e dell’oil&gas, i cosiddetti “Carbon Majors”. Sono molti, ad aver richiesto alle grandi multinazionali di rendersi responsabili per i danni all’ecosistema naturale che le loro attività operative avrebbero causato e, soprattutto, coprire costi per rinforzare l’ecosistema stesso.