La caccia al rendimento può portare a ritrovarsi in portafoglio asset più difficili da vendere. E, in caso di riscatti, per il fondo sarebbe un problema. Ecco perché è decisivo monitorare la flessibilità dei comparti
di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Da inizio anno gli attivi finanziari hanno macinato performance da record. L’indice S&P 500 ha messo a segno un +21%, il DJ Eurostoxx 50 +19%, il Ftse Mib di Piazza Affari +21%. Contemporaneamente anche i mercati obbligazionari hanno consentito ritorni positivi grazie alla corsa all’acquisto dei bond. In questo Eldorado pare quasi fuori luogo preoccuparsi di cosa potrebbe succedere in caso di stress sui mercati. Eppure gli incidenti di percorso sono sempre in agguato. Nel caso del fondo Allegro di H2O Asset Management (gruppo Natixis), che aveva un track record di performance da record, è bastato un’ombra di dubbio su temi delicatissimi come liquidità e governance a scatenare i riscatti. In altri casi è sufficiente una performance deludente per far scattare vendite massicce. Ed è quindi giusto chiedersi quanto i fondi siano attrezzati a fronteggiare forti volumi di deflussi. Tanto più che a sollevare la questione è intervenuto il governatore della Bank of England Mark Carney che ha definito i fondi che investono in asset illiquidi, ma permettono la liquidità giornaliera della quota di essere «costruiti su una bugia».

L’idea è che in caso di forti riscatti la liquidazione immediata degli asset sottostanti non sia possibile e che quindi sarebbe meglio allineare le regole del riscatto al tipo di asset in cui investe il fondo. La questione riguarda sia i fondi azionari sia quelli obbligazionari. Bank of America Merrill Lynch, che in un report recente sugli asset manager europei ha proprio analizzato l’esposizione ai titoli illiquidi per le società di asset management che copre in Europa, scrive: «Il rischio maggiore è che ci sia un mismatch (una mancata corrispondenza) tra la liquidabilità del fondo e il livello di liquidità degli asset in portafoglio». In particolare si è analizzata l’esposizione ai titoli obbligazionari senza rating, ma anche ad alcune emissioni dei Paesi emergenti e alle obbligazioni convertibili. Nel complesso è emersa una bassa esposizione a titoli potenzialmente illiquidi rispetto al totale delle masse per le società messe sotto esame, tra le quali figurano anche Amundi, Banca Mediolanum e Azimut .
Tuttavia il dato sulla liquidità dei fondi va sempre monitorato. Come ricorda Francesco Paganelli, analista del manager research team di Morningstar: «Accertare la liquidità disponibile non è semplice perché dipende da molti fattori, quali la dimensione del fondo, la strategia perseguita, la composizione del portafoglio, ma anche la tipologia dei sottoscrittori. Ma soprattutto non deve essere un’analisi statica, ma prospettica. Bisogna chiedersi quanti giorni sarebbero necessari a liquidare le posizioni in caso di stress».
In una ricerca dedicata proprio all’analisi della liquidità dei fondi Tom Whitelaw, director of equity rating di Morningstar, scrive: «Accertare la liquidità disponibile è estremamente difficile È influenzata da molti fattori e spesso viene a mancare quando ce ne sarebbe più bisogno. Per l’analisi dei fondi azionari, usiamo la media a 30 giorni più bassa dei volumi giornalieri di ciascun titolo a partire dal 2000. Quindi prendiamo il 25% di quel numero (dal momento che non ci aspettiamo che tutta la quota sia venduta in una volta sola). Infine, consideriamo il numero di azioni nel fondo per ciascuna società e lo dividiamo per la nostra stima di transazioni giornaliere, in modo da approssimare i giorni necessari per la completa liquidazione della posizione». Gli analisti mettono alla prova la resistenza del fondo in diversi contesti di mercato in modo da avere un’indicazione complessiva sul suo livello di rischio. Un discorso simile vale per i fondi obbligazionari, dove il nodo può essere appunto rappresentato dalla presenza di bond senza rating o anche non quotati. Peraltro oltre al tema della liquidità anche quello della capacità va monitorato. «Si tratta del rovescio della medaglia, ossia la valutazione di quali rischi si possono correre in caso di forti flussi di raccolta. Ci può essere il rischio di una diluizione dei risultati oppure la necessità del gestore di cambiare strategia», dice Paganelli.

Niente cattive sorprese. Un capitolo a parte meritano i rischi che riguardano la responsabilità sociale, ambientale e di governance. Infatti sempre più investitori istituzionali e retail appaiono sensibili a questi temi. Quindi non stupisce l’interesse da parte delle società di gestione nell’offrire prodotti che nelle scelta dei titoli in cui investire tengono conto proprio anche dell’impatto ambientale, sociale e di governance. Tanto che oggi tutti i protagonisti del mercato hanno nella propria gamma strategie di questo tipo. «Il fenomeno investimento sostenibile è molto evidente oggi nella distribuzione finanziaria alla ricerca di nuove e differenti approcci nella gestione di portafoglio. Una moda? Un nuovo paradigma destinato a durare? A posteriori e in arco temporale maggiore potremo verificare i risultati e gli effetti che avrà prodotto nel mondo gestito e nell’economia. In ogni caso, anche le istituzioni finanziarie a livello europeo, in particolare l’Authority di vigilanza Esma, non sono rimaste insensibili al fenomeno. Tanto che non sono mancati messaggi diretti agli intermediari sul tema: sia per inserire nei questionari di profilatura ai fini Mifid 2 precisi connotati informativi sugli interessi e sulle preferenze dell’investitore su questi aspetti, sia per evitare che vengano poste in essere pratiche di vendita scorrette e finalizzate alla generazione di ricavi derivanti da aumento di costi e movimentazioni di portafoglio improprie», premette Roberto Lenzi, avvocato patrimonialista dello studio legale Lenzi e Associati. Infatti per gli investitori non è così facile orientarsi. «Esg, Sri, Impact Investing. Tutte sigle ricorrenti quando sentiamo parlare di investimenti sostenibili. Tuttavia, per coloro che si approcciano per la prima volta a questo universo, il discorso può non essere di facile lettura. Sostanzialmente, dietro ogni sigla vi è un determinato approccio. Ecco, dunque, che l’acronimo Esg, dalle iniziali delle parole Environment, Social e Governance, si riferisce a prodotti finanziari come Etf e fondi che oltre all’aspetto finanziario, investono in azioni e obbligazioni di società che operano secondo criteri di sostenibilità ed etica, con particolare riguardo a fattori di natura ambientale, sociale e di governo societario», dice Lenzi.
Ci sono inoltre prodotti che possono proporsi obiettivi più specifici. «Ad esempio i fondi a responsabilità sociale, gli Sri, dove la strategia di investimento è legata all’esclusione di alcuni settori, come armi, gioco d’azzardo, tabacco, senza necessariamente essere connessa a target legati all’ambiente, al sociale o alla governance. Così come i fondi impact investing, strutturati per ottenere un ritorno finanziario ma che sia collegato alla realizzazione di un impatto ambientale e/o sociale positivo», spiega Lenzi. Fatto sta che ad accumunare le varie categorie di fondi sostenibili è proprio una filosofia volta a limitare i rischi di cattive sorprese. Come ricorda Neil Dwane, Global Strategist di Allianz Global Investor: «Dopo quasi vent’anni di esperienza nella gestione di portafogli sostenibili, siamo in grado di dimostrare ai nostri clienti che i fattori Esg possono contribuire a migliorare i profili di rischio e rendimento. È uno dei primi motivi per cui la sostenibilità è diventata una priorità per molti investitori, soprattutto quelli istituzionali».
Per quanto riguarda il mercato obbligazionario da una ricerca realizzata da Banor Sim e dalla School of Management del Politecnico di Milano che ha studiato la relazione tra rating Esg e spread di rendimento delle obbligazioni sui mercati europei è emersa una performance migliore dei titoli associati alle buone pratiche Esg, in particolare per i titoli high yield. Tuttavia il parametro che discrimina di più è quello legato alla buona governance mentre i fattori legati ad ambiente e alle tematiche sociali sembrano essere percepiti come meno rilevanti.
Intanto nel radar dei criteri di eticità, accanto ad azioni e obbligazioni corporate, entrano anche i titoli di Stato, un’asset class che non può essere trascurata nella costruzione di un portafoglio, anche se è più complicato valutarne gli aspetti Esg. «Spesso è più facile incorporare le considerazioni Esg nel processo di investimento a livello di singole società: queste infatti svolgono attività circoscritte, pertanto possiamo distinguere in modo piuttosto chiaro i settori che non vogliamo sostenere, come inquinamento, gioco d’azzardo, fumo, alcol, da quelli che invece ci interessano, quali salute, educazione, risorse rinnovabili. L’investimento in titoli di Stato solleva invece questioni complesse», ricorda Maria Municchi, manager del fondo Sustainable Allocation di M&G, «ma il ruolo che svolgono in termini di opportunità di investimento e, soprattutto, di incidenza sul futuro del mondo, è troppo importante perché li si possa ignorare», aggiunge Municchi. Le agenzie di rating come Msci, che fornisce punteggi Esg specifici, distinti dai rating di credito tradizionali «possono offrire spunti per la valutazione di questi fattori, che richiede però anche considerazioni qualitative e tutta una serie di altri input», afferma Municchi.
Non bisogna poi dimenticare che l’attenzione alla sostenibilità riguarda anche gli investitori passivi. Come ricorda Adrienne Monley, responsabile investment stewardship di Vanguard in Europa sottolinea: «Poiché siamo un investitore orientato sul lungo termine, e siamo impegnati a far sì che i nostri investimenti siano sostenibili, consideriamo le questioni Esg attraverso la lente della concretezza. Quando analizziamo tali questioni valutiamo se e dove queste possano incidere in modo rilevante sulla performance finanziaria della società».
Proprio dal punto di vista delle performance il bilancio da inizio anno dei fondi azionari e obbligazionari Esg è positivo. Questi comparti hanno potuto approfittare del contesto favorevole per bond e azioni. In particolare negli obbligazionari sono stati favoriti i prodotti specializzati sui bond più rischiosi, come quelli dei mercati emergenti ed high yield. Il miglior fondo risulta il comparto BlackRock Esg Emerging Market Bond che segna una performance da inizio anno del 9,39%, segue il fondo Pimco Socially Responsible Emerging Market Bond con una performance dell’8,34%, in terza posizione si trova Dpam Bond emerging market sustainable (7,64%). Segue il fondo M&G Global High Yield Esg Bond (7,17%). Tra gli azionari in molti casi il tema Esg si associa anche a quello dei trend secolari. Come nel caso del fondo Fonditalia Millennials o in quello di Fidelity Sustainable Water & Waste. (riproduzione riservata)

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