Chiesto scudo per sterilizzare in bilancio la volatilità dei titoli di Stato. Intanto l’associazione fotografa un settore con premi e utili in crescita e indici di solvibilità rassicuranti
di Anna Messia

L’Ania lancia l’allarme spread e chiede uno scudo per difendersi meglio. Un sensibile allargamento dello spread comporta «un forte rischio nel breve termine sui bilanci delle compagnie di assicurazione», ha sottolineato ieri il presidente dell’associazione delle compagnie assicurative, Maria Bianca Farina, durante la relazione annuale Ania, aggiungendo che nel caso di persistenza il rischio è inevitabilmente «destinato a riflettersi sui rendimenti corrisposti ai nostri 20 milioni di clienti».

Insomma, la questione è seria ed è tornata d’attualità con l’ultima fiammata dello spread che si è registrata tra maggio e giugno durante la formazione del nuovo governo. E lo spread sui titoli pubblici è un nodo cruciale per le compagnie, considerando che degli 850 miliardi di investimenti complessivi del settore oltre 300 sono in titoli di Stato italiani, che rappresentano più del 15% dello stock in circolazione. Sul tavolo, come aveva reso noto il presidente dell’Ivass e direttore generale di Banca d’Italia Salvatore Rossi, c’è già la revisione dello strumento «dell’aggiustamento della volatilità» (volatility adjustment) previsto dalla normativa europea Solvency II, che serve appunto a limitare i danni legati a crisi momentanee ma che ha finora penalizzato le imprese italiane con meccanismi non lineari. In Europa si sta già ridiscutendo quelle norme e Ivass è pronta a lavorare per correggere le disparità tra i Paesi, ha fatto sapere Rossi, ma le richieste dell’Ania andrebbero oltre la revisione dell’aggiustamento della volatilità. In ballo c’è anche una ridefinizione delle regole sui bilanci nazionali, quelli su cui le imprese pagano i dividendi e le cui regole in Italia sembrano decisamente più stringenti rispetto per esempio a quelle di Francia o Germania, sostengono le imprese. L’idea sarebbe in particolare quella di rimettere in campo misure per sterilizzare gli effetti delle volatilità, adattandole al nuovo scenario. Si tratta di misure che erano state introdotte per la prima volta nel 2008, in occasione della grande crisi, ma che non sono poi state rinnovate con l’arrivo di Solvency II, entrata in vigore nel 2016. Ora l’industria vorrebbe rispolverarle, ovviamente solo per i bilanci locali visto che per quelli di gruppo ci sono appunto le normative europee. Si vedrà.

Intanto ieri dalla fotografia scattata da Ania è emerso un settore assicurativo in crescita e in salute. L’anno scorso la raccolta premi complessiva delle imprese italiane ha sfiorato i 131 miliardi di euro: 100 miliardi si riferiscono al settore Vita, 16 miliardi al settore auto e altrettanti agli altri rami Danni. A questi premi si devono poi aggiungere quelli raccolti dalle imprese europee che operano in Italia, pari a 17 miliardi nel Vita e 4 miliardi nel Danni, Il settore assicurativo, sempre nel 2017, ha realizzato utili netti per 6 miliardi, di cui solo circa 400 milioni nel settore auto, che peraltro ha realizzato un disavanzo nella gestione corrente, ha aggiunto Farina, ricordando anche la solidità delle imprese, che oggi hanno indici di solvibilità di assoluta sicurezza anche nel confronto internazionale, visto che a fine 2017 il capitale disponibile era pari a quasi 2,5 volte quello richiesto. Numeri e solidità che il settore è pronto a mettere a disposizione della crescita dell’economia italiana con un contributo fattivo e agendo in particolare su tre leve: la messa in sicurezza del territorio, la tutela del risparmio delle famiglie e il finanziamento di medio e lungo termine dell’economia reale . Temi su cui Ania auspica una «collaborazione tra pubblico e privato», ha dichiarato Farina citando i possibili investimenti in infrastrutture, verso i quali le compagnie sono ben disposte, ma anche la crescita della sanità integrativa e delle previdenza complementare. «La previdenza integrativa in Italia non è mai veramente decollata», ha concordato Rossi, aggiungendo che si tratta di un difetto italiano che va corretto. (riproduzione riservata)

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