Sentenza annullata dalla suprema corte perché il fatto non sussiste

di Adelaide Caravaglios
Niente condanna al chirurgo che non porta a termine l’operazione, sebbene abbia già sottoposto il paziente ad anestesia e abbia praticato l’incisione: lo ha chiarito la Cassazione, intervenendo sul ricorso di un dirigente medico presso la Divisione di Chirurgia generale di un ospedale civile pugliese, annullando senza rinvio la sentenza impugnata «perché il fatto non sussiste».

Da quanto rilevato in corso di causa, era emerso che il camice bianco si era «indebitamente» rifiutato di portare a termine un intervento di safenectomia sul paziente, avendolo, però, già sottoposto alla procedura anestesiologica ed avendogli praticato un’incisione cutanea e sottocutanea propedeutica all’asportazione della vena: secondo i giudici di merito, il professionista era responsabile per il reato di cui all’art. 328 c.p. («rifiuto di atti di ufficio»). Tuttavia, in riforma della decisione di primo grado, gli veniva rideterminata la pena inflitta riconoscendo le attenuanti generiche. Avverso tale sentenza l’imputato propone ricorso per cassazione, rilevando l’erronea applicazione dell’art. 328 c.p. citato ed il fatto «si poteva essere al limite della copertura anestetica», con la conseguenza che un dolore così intenso quale quello che si prova intervenendo su una vena, ad un paziente iperteso, obeso e cardiopatico, poteva anche provocargli il decesso. Secondo i giudici di legittimità (sentenza 24952/2018), il ricorso andava accolto: l’argomentare dei giudici di merito si poneva infatti «al di fuori dell’alveo di legittimità», dal momento che questi avevano del tutto omesso di considerare le ragioni di salute del paziente, che andava operato «in condizioni di sicurezza» e che avevano arbitrariamente formulato al ricorrente «di aver violato il dovere di attendere ancora l’intervento in sala operatoria del collega che, invece, secondo il protocollo operativo, doveva assicurare la sua presenza sin dall’inizio dell’intervento» e che non si era presentato a prestare la «sua dovuta collaborazione» dopo venti minuti dall’inizio dell’intervento. Non potevano dunque dirsi esistenti gli elementi necessari all’integrazione dell’elemento oggettivo del reato in contestazione.
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