Va cercata la formula locale-imprenditoriale
di Manola Di Renzo e Matteo Sciocchetti

Trovare la via italiana al welfare. Questa deve essere la missione di uno Stato e di una democrazia finalmente matura, riuscire cioè a fornire alla propria popolazione tutta una serie di strumenti che ne sostengano la necessaria sussistenza nelle eventualità critiche. «Finora in Italia abbiamo rimandato troppo lungamente una ristrutturazione del sistema del welfare, in primo luogo delegando alla volontarietà dei datori di lavoro tutto quel può essere ricondotto al welfare aziendale.

Senza dubbio una visione eccessivamente paternalistica ci ha relegato agli ultimi posti in Europa nel sostegno ai lavoratori», sottolinea il presidente Cnai Orazio Di Renzo.

Puntare sul welfare nella sua declinazione più locale e imprenditoriale, infatti, non è solo una via di compensazione o di «dono» che l’azienda (solitamente la grande realtà imprenditoriale) intraprende per migliorare la propria immagine: piuttosto si costituisce come un punto fondamentale del processo di motivazione personale del dipendente, aumentando al contempo le condizioni e il clima aziendale.

«Le conseguenze di una maggiore attenzione nei confronti del lavoratore comporta in primo luogo una maggiore produttività, migliorate condizioni generali in azienda e relativo calo dell’assenteismo. Ma non solo. Noi, come Cnai, già da molti anni abbiamo provveduto a integrare sistemi di welfare aziendale all’interno dei nostri contratti, constatando e verificando quali fossero le potenzialità di tale strumento nel fronteggiare i bisogni sociali che il territorio presentava (e continua a presentare); in particolare in ambiti dove è più difficoltoso riscontrare la presenza dello Stato», ricorda il presidente Di Renzo.

La necessità dei tempi, pare piuttosto condivisibile, è che si comprenda quanto il welfare possa valere come vero e proprio investimento e non come una semplice messa in salvaguardia dai rischi possibili: «In un periodo di profondo stress economico non possiamo sottovalutare quanto ciò possa giovare anche nel migliorare le condizioni generali di efficienza dell’impresa, con ovvie ricadute sul benessere pubblico. Cominciano a circolare insistentemente le intenzioni del neoministro Calenda, che vogliono puntare a un ulteriore intervento correttivo riguardo il salario del lavoratore, e in particolare alla gestione dei premi di produttività, ma reputiamo che ciò non sia la via migliore. O meglio, non la sola priorità», riflette il presidente Di Renzo.

Come si ricorderà l’ultima legge di Stabilità, quella per il 2016, ha reintrodotto la tassazione agevolata dei premi di risultato e di tutte quelle somme riconducibili alla partecipazione agli utili, sancendo l’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali (regionale e comunale), consistente nel 10% per quanto riguarda i premi di risultato connessi ad aumenti di produttività, redditività, qualità efficienza e innovazione (condizioni verificabili e misurabili mediante appositi criteri ministeriali); beneficio spettante purché non vengano superati i 2 mila euro di premi e il dipendente non percepisca più di 50 mila euro. Allo stesso tempo, con quella che andava sotto il nome di Finanziaria, si è proceduto in una nuova definizione delle erogazioni partenti dal datore di lavoro e che possono essere compresi nel cosiddetto welfare aziendale.

Va ricordato, inoltre, che i benefici erogati a vantaggio del lavoratore dipendente (rigorosamente solo per quelli del comparto privato) non entrano a far parte del reddito di lavoro e semmai il lavoratore decidesse di trasformare i premi di risultato agevolato in benefit propri del welfare aziendale potrebbe ottenere una detassazione completa evitando anche l’imposta sostitutiva del 10%, ora si paventano ulteriori correttivi che non solo rendano strutturale la detassazione (seppur aumentandola dal 10 al 12,5%, ndr), ma soprattutto che eliminino il tetto dei 2 mila euro annui di premi e la natura vincolante dell’accordo sindacale. È nell’aria l’ipotesi di un intervento concreto nella direzione di un ridimensionamento del peso del contratto nazionale. Evento quanto mai opportuno giacché proprio in questo periodo stiamo assistendo a una fase di clamoroso stallo nelle dinamiche di rinnovo in molti settori lavorativi. È proprio questo stucchevole periodo di impasse che ci suggerisce che forse la priorità, di una riforma radicale, non sia tanto da orientarsi verso la detassazione dei premi, cosa, ricordiamo, comunque benvenuta, ma, piuttosto, nei confronti del sistema stesso dei rinnovi contrattuali e, a cascata, di quello delle retribuzioni. Appare infatti evidente che la lotta continua finalizzata ad alzare l’asticella della condizione retributiva, e portata avanti dai confederati, non abbia apportato grandi benefici né per il lavoratore né tantomeno per l’azienda o il mercato del lavoro. «Alcuni sindacati, a oggi, non hanno realizzato ancora quale sia la direzione corretta da percorrere, ovvero quella che conduce verso un abbassamento del costo del lavoro e in genere del cuneo fiscale per l’impresa. Inutile aumentare le entrate dei lavoratori se poi quelle stesse entrate hanno un bassissimo potere d’acquisto», ancora il presidente Di Renzo, «così, a fianco di una maggiore attenzione nel trattamento dei premi, riteniamo opportuno che si intervenga in maniera decisa anche sulla tassazione. Tale è la nostra posizione perché, quanto fatto finora dal Legislatore, non ha apportato alcun reale incremento per quel che riguarda, per esempio, il parametro relativo ai consumi interni.

L’incentivazione retributiva è ormai non più demandabile: la crisi non ha fatto altro che accentuare un male cronico della concertazione all’italiana. In condizioni di generale benessere (ovvero il periodo pre-crisi) poteva anche essere tollerata la rincorsa dei sindacati a maggiori richieste contributive, in fase di rinnovo contrattuale; ma oggi, con una situazione economica ancora stagnante, dobbiamo pensare in maniera maggiormente dinamica: è il mondo del lavoro che ce lo impone». Ecco quindi evidenziarsi la necessità di ridimensionare la valenza del contratto collettivo nazionale, ormai incapace di farsi interprete delle complesse dinamiche territoriali di produzione e management.

«Meglio optare per una decisa virata verso la gestione del salario a livello aziendale, permettendo che siano i rapporti interni alle azienda stessa a determinare le migliori condizioni per i lavoratori», afferma il presidente Di Renzo, «solo così sarà possibile esercitare quella sferzata che la nostra languida economia esige».

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