di Guido Salerno Aletta
Per bilanciare il suo scarso peso economico rispetto alla Germania, e soprattutto per far crescere di dimensione le sue grandi imprese, la Francia continua a far spesa in Italia. Da cinque anni a questa parte, approfittando della lunga crisi italica e delle basse quotazioni di borsa. Il valore delle acquisizioni francesi è stato di ben 24 miliardi, rispetto agli 11 miliardi delle imprese italiane. Di regola, le grandi imprese francesi acquisiscono le omologhe italiane, approfittando del fatto che la loro dimensione è mediamente doppia.

Le vicende di Telecom e di Mediaset Premium con la clamorosa rottura dei giorni scorsi, fino al caso di Suez che nelle scorse ore è divenuto il primo azionista privato in Acea , non lasciano dubbi sul fatto che l’interesse delle imprese francesi a crescere acquisendo interi pezzi del sistema produttivo taliano prosegue. L’elenco delle acquisizioni francesi si va così continuamente allungando, a dispetto di chi lamenta la scarsa competitività del nostro sistema produttivo: Carrefour ha comprato Gs, Bnp la Bnl, Crédit Agricole la Cariparma, Lactalis la Parmalat , Edf la Edison , Lvmh la Loro Piana e Bulgari. L’interesse francese è tornato di recente a focalizzarsi in Italia sui settori telco, media company, banche ed assicurazioni. È un dejà vu, visto che già venti anni fa si registrava una analoga attenzione: così come Canal+ era interessata al settore della televisione a pagamento, Edf guardava a quello delle telecomunicazioni, entrando in partnership con Enel per il lancio di Wind. Crediop, tra tutte, fece le spese di quella prima fase di ingresso della Francia nel settore bancario italiano: ora si guarda, ma non si compra.

Nel complesso, le relazioni italo-francesi stanno conoscendo una fase di intensificazione, sempre complessa. Anche se da qualche tempo Roma e Parigi hanno il convergente interesse politico a bilanciare il ruolo pressoché egemonico di Berlino nel determinare le politiche europee di rigore fiscale, è del tutto inimmaginabile un asse in grado di rimpiazzare quello che lega Francia e Germania da oltre 50 anni.

Dal punto di vista delle relazioni internazionali extraeuropee, Italia e Francia continuano a competere, innanzitutto nel Mediterraneo con alterne fortune, come testimoniano i rapporti con Tunisia, Turchia, Libia ed Egitto, soprattutto negli ultimi tempi. Ad ogni difficoltà di Roma, Parigi è pronta ad approfittarne, e viceversa.

Sul versante delle relazioni commerciali, la Francia è il principale mercato dell’export italiano, da tempo in attivo strutturale. Siamo, poi, il terzo Paese per investimenti stranieri in Francia, dopo Stati Uniti e Germania: nel 2015 hanno superato i 17 miliardi di euro. Sono presenti più di 1.800 imprese italiane, prevalentemente di media dimensione, che danno lavoro a oltre 100 mila dipendenti: è una presenza radicata soprattutto nei settori dell’arredamento, dell’alimentare, dell’abbigliamento e della logistica. Le acquisizioni di imprese francesi di taglia medio-grande, come è accaduto per Carte Noir da parte della Lavazza, oppure di Grand Marnier da parte di Campari , si contano sulla punta delle dita. Mentre l’Italia cerca spazio sul mercato francese, la Francia compra direttamente le grandi imprese italiane: sono due strategie opposte, che riflettono i rispettivi sistemi industriali.

Le recenti acquisizioni nel settore dei media-telco, sembrano aver sottovalutato non solo le difficoltà oggettive in termini di mercato, quanto le reazioni dei concorrenti: Telecom è stata prontissima a reagire a Enel -Metroweb stringendo un’alleanza con Fastweb in grado di mettere i bastoni tra le ruote all’ex monopolista elettrico; la marcia indietro di Vivendi su Mediaset Premium, al di là delle controversie legali che la stanno caratterizzando, dimostra che i grandi disegni di consolidamento europeo nel segmento della televisione a pagamento, in un contesto di mercato ancora riflessivo e soprattutto impredittibile dal punto di vista delle abitudini dei consumatori, rimane una scommessa azzardata (anche i numeri recenti di Netflix, la piattaforma televisiva americana che sembrava pronta a sbaragliare il mercato europeo, sembrano meno incoraggianti delle attese).

Ma la vera novità della presenza francese in Italia è rappresentata dal fatto che, quando la preda è troppo grande, e soprattutto quando comprare un’azienda è rischioso e poco redditizio come accade di questi tempi nel settore delle banche e delle assicurazioni, i manager francesi spuntano come funghi. Due i casi eclatanti: il nuovo ad delle Generali , Philippe Donnet (vedere articolo a pagina 19) e il nuovo ceo di Unicredit , Jean-Pierre Mustier (vedere altro articolo sempre a pagina 19), due manager che, ironia della sorte, sono anche amici e compagni di caccia e che hanno dato subito una forte impronta alle società di cui hanno preso il timone. Il primo con conti semestrali nettamente superiori alle attese con annesso gran balzo del titolo nella seduta di venerdì 29, il secondo con un grande attivismo che l’ha portato in poche settimane a cedere quote di controllate (Fineco e Pekao), a rivoluzionare la prima linea e a mandare a monte le trattative con Santander per Pioneer. Nel settore bancario ed assicurativo ci sono immense risorse da gestire: quello di indirizzare gli impieghi è un compito specifico del management, e lì sta la chiave del potere. Non solo si decide a chi concedere il credito, quanto soprattutto dove investire la raccolta e i premi, anche all’estero.

La Galassia del Nord, accomodata per anni nel salotto di Mediobanca quando c’erano da fronteggiare le partecipazioni statali, si è dissolta a mano a mano che gli intrecci azionari sono venuti meno, e il sistema di interlocking directorate è stato bandito. Ognuno è andato via, per conto suo. Le grandi famiglie, ad eccezione di Ferrero e Barilla, passano dalla industria alla finanza. Gli Agnelli hanno fatto il paso doble, trasferendo anche le sedi legali in Olanda, ultima quella di Exor , cassaforte di famiglia. Anche il raccordo tra sistema politico, industria e finanza basato sul sistema fondazioni-banche dopo la privatizzazione del sistema bancario, è ormai liso: lo stesso sistema di governance duale non ha mai funzionato a dovere. C’è una crisi dell’establishment italiano, più profonda ancora delle critiche che vengono mosse continuamente al sistema politico e burocratico.

In Italia mancano soprattutto le prospettive di lungo periodo, le strategie condivise, l’idea di futuro: troppo si batte e ribatte sulle riforme strutturali, che sono solo strumentali. Si continua da più vent’anni anni a ripetere il mantra della moderazione salariale, e da almeno un decennio quello della flessibilità del mercato del lavoro, prima in entrata e poi in uscita, come se questo bastasse a garantire nuovi investimenti.

La Francia non sta affatto meglio dell’Italia: per crescere compra pezzi del nostro sistema produttivo, pagandoli ai saldi di fine stagione. Altri ne presidia a livello manageriale. Ma intanto c’è. E si fa sentire.

AB

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