Pagine a cura di Antonio Ciccia Messina 

 

Il fatturato del cybercrime in Italia raggiunge 9 miliardi di euro. E nonostante siano aumentati gli investimenti in sicurezza informatica (saliti dell’8% nel 2014 a livello globale, nonostante il perdurare della crisi economica), come evidenzia il rapporto Clusit (Associazione italiana per la sicurezza informatica), il numero e la gravità degli attacchi nel 2015 continuano ad aumentare.

Inoltre secondo il Microsoft Security Intelligence Report nel 2014 si è registrato in Italia un tasso di esposizione a malware del 20%, contro una media mondiale del 19%, mentre negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia il valore è compreso tra il 12 e il 13%.

Tra i destinatari principali degli attacchi ci sono i social network, utilizzati come vettori di attacco per la diffusione di malware e per effettuare frodi basate su social engineering.

Anche l’affermazione sul mercato di smartphone e tablet spiega l’aumento sostanziale di attacchi verso questo genere di strumenti: i produttori di device mobili, sviluppatori di applicazioni ed utenti (corporate e finali), spiega il rapporto Clusit saranno costretti a rivedere le proprie strategie e i propri investimenti in materia di mobile, ponendo l’accento sulla sicurezza e non più solo sugli aspetti marketing o di business.

Il rapporto Clusit individua, poi, nei Pos un punto di debolezza, da cui passeranno gli attacchi e le frodi ai danni di piccoli esercizi commerciali.

In questo quadro generale si collocano i tentativi di disciplinare l’uso della rete sia attraverso operazioni culturali e di promozione della conoscenza, sia attraverso l’applicazione delle disposizioni sanzionatorie penali e civile, che non sempre appare in grado di reggere il passo con i delitti della «rete».

Se non altro per un dato allarmante. Si calcola che solo un terzo degli attacchi in rete siano percepiti dal soggetto danneggiato. Questo significa che in due casi su tre l’autore dell’illecito la fa tranquillamente franca e il suo reato rimane contabilizzato in una cifra oscura che misura l’impunità.

 

Le indicazioni del Garante della privacy. L’Autorità garante per la protezione dei dati personali batte da tempo sulla necessità di prevenire i danni con un uso attento dei social network e della rete in generale.

Non è facile scardinare alcuni pregiudizi, che spingono a condotte improprie. Un pregiudizio fortissimo è la convinzione che si può navigare senza lasciare traccia e senza essere mai beccati.

La possibilità di mantenere l’anonimato, in vero, è una leggenda metropolitana.

Eppure, spiega sempre il garante della privacy, i social network sono strumenti che danno l’impressione di uno spazio personale, o di piccola comunità.

Si tratta però di un falso senso di intimità che può spingere gli utenti a esporre troppo la propria vita privata e professionale, a rivelare informazioni confidenziali, orientamenti politici, scelte sessuali, fede religiosa o condizioni di salute, provocando gravi «effetti collaterali», anche a distanza di anni, che non devono essere sottovalutati.

Inoltre l’idea (falsa) di impunità trasmessa dalla possibilità di utilizzare ad esempio messaggi che si «autodistruggono» o di nascondersi dietro forme di anonimato può favorire in rete atteggiamenti aggressivi o violenti, in particolare verso le persone più giovani e indifese.

Il Garante della privacy nel suo vademecum sui social network mette, invece, in evidenza che si può risalire all’identità di chi che pubblica testi, immagini, video su internet.

Questo ovviamente vale anche per chi usa i social network per danneggiare l’immagine o la reputazione di un’altra persona. L’anonimato in rete, spiega il Garante della privacy, può essere usato per necessità, ma mai per commettere reati: in questo caso le autorità competenti hanno molti strumenti per intervenire e scoprire il «colpevole».

Sul piano culturale bisogna rafforzare il senso della delicatezza e della pericolosità delle operazioni che si fanno in rete.

Quando si carica un testo o un’immagine, le potenzialità di fruizione e manipolazione del testo e dell’immagine superano le capacità di controllo, che decrescono tanto repentinamente quanto maggiore è e la velocità della diffusione.

Quando si inseriscono dati personali su un sito di social network, se ne perde il controllo.

I dati possono essere registrati da tutti i contatti e dai componenti dei gruppi cui si è aderito, rielaborati, diffusi, anche a distanza di anni. A volte, accettando di entrare in un social network, si concede al fornitore del servizio la licenza di usare senza limiti di tempo il materiale che si inserisce on-line e, quindi, le foto, le chat, gli scritti, le opinioni.

Questa la ragione, per cui, spiega il Garante, quando si carica on-line una foto che ritrae terze persone o quando si tagga un’immagine inserendo dati personali altrui, bisogna domandarsi se ci possono essere riflessi negativi sulla privacy e nel dubbio è meglio chiedere il consenso.

Meglio lasciar perdere gli hater, e i troll, nel gioco perverso, stando lontano dalle aggressioni virtuali.

Il web non è un luogo senza regole dove ogni utente può dire o fare quello che vuole.

Valgono, invece, sia norme di civile convivenza, così come le norme che tutelano dalla diffamazione, dalla violazione della tua dignità: le esigenze di tutela sono identiche e valgono nella vita reale come sui social network, in chat o sui blog. Come sostiene il garante della privacy Non esistono zone franche dalle leggi e dal buon senso.

Anche se la dimensione globale della rete non sempre garantisce l’applicabilità della legge italiana (sede estera dei social network e dei loro server).

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