di Claudia Cervini

La macchina è tornata in carreggiata, ora bisogna far girare i motori. Si può riassumere così lo stato dell’arte diBanca Carige che, dopo un lungo lavoro di repulisti e irrobustimento patrimoniale, può finalmente avviare la fase due del piano di rilancio. Il lavoro da fare per l’ad Piero Montani, nominato a ottobre 2013 con l’approvazione del mercato, non è affatto finito.

Dopo avere rinnovato la prima linea del management, ridisegnato l’organigramma, rafforzato i presidi interni e la divisione compliance, compiuto un’intensa pulizia di bilancio e irrobustito il patrimonio grazie all’aumento da 850 milioni interamente sottoscritto, ora Carige si focalizzerà sull’attività commerciale per incrementare i ricavi. E, contestualmente, sul rilancio dell’attività del private banking facendo della Cesare Ponti l’unico polo private dell’intera banca. Una strada, quest’ultima, prevista in origine dal piano industriale, che potrebbe tornare in auge dal momento che il cda di Carige ha deciso di non cedere la storica merchant bank. Queste misure, unite all’intenso lavoro che Montani deve ancora fare per alleggerire il bilancio della banca dai crediti deteriorati, dovrebbero portare, secondo il piano 2015-2019, l’utile netto a 208 milioni a fine piano. Almeno nell’ottica del business plan stand alone che, se da un lato potrebbe essere leggermente ritoccato dopo l’ingresso dei nuovi azionisti, dall’altro potrebbe essere sorpassato da un’eventuale futura aggregazione.

Nel corso dell’assemblea di aprile, Montani lo aveva detto: «Siamo a metà del lavoro di turnaround».

L’obiettivo è continuare a essere «una banca solida, una banca semplice, vicina al cliente e focalizzata sull’attività commerciale», aveva illustrato aggiungendo che per questo motivo il management non farà operazioni di altra natura se non commerciali e continuerà a ridurre il portafoglio di rischio della banca. Ecco le prossime mosse dell’istituto?

1) Bad bank. L’istituto è al lavoro sulle sofferenze. Carige ne ha circa un miliardo di euro da cedere, mentre per altri crediti in sofferenza sono previste partnership con strutture esterne specializzate, al fine di accelerare il tasso di recupero. In quest’ottica il management sta lavorando all’ipotesi di una bad bank: «Abbiamo avviato un processo lungo. Ci vorranno almeno 5-6 mesi per avere una valutazione chiara e quando saremo pronti valuteremo se fare la bad bank», aveva affermato l’ad. A oggi è ancora troppo presto per capire quale sarà l’architettura di questo piano di dismissione che si incrocia con l’attuazione di una soluzione di sistema ancora indefinita.

2) Contenimento costi. Nel piano industriale viene evidenziata l’opportunità di ulteriori risparmi uniformando l’efficienza del gruppo a quella della capogruppo. A questo proposito Carige ha scelto di imboccare la strada della semplificazione societaria. Il board di Carige, di Cassa di Risparmio di Savona, di Cassa di Risparmio di Carrara e gli amministratori unici delle società Columbus Carige Immobiliare e Immobiliare Carisa hanno infatti approvato, lo scorso luglio, il progetto di fusione per incorporazione delle quattro società nella capogruppo. Una mossa finalizzata a imprimere un’accelerazione del turnaround, «con la possibilità di estrarre ulteriore valore a sostegno della crescita attraverso efficientamenti di strutture e risorse», si leggeva nel vecchio piano al 2018. Gli obiettivi non sono cambiati e il processo di alleggerimento dei costi e di efficientamento non si è concluso.

3) Rete commerciale. La riorganizzazione interesserà anche il retail e la divisione commerciale. Il piano al 2019 prevede la chiusura di 36 filiali (642 il numero complessivo degli sportelli a fine 2014). Non va scordato che la banca ha siglato un accordo sindacale per 600 esodi incentivati e un’ampia revisione della struttura retributiva, con un risparmio a regime pari a 50 milioni annui. Oltre alla riduzione del numero di filiali il nuovo assetto distributivo prevede altresì l’adozione di nuovi formati. Come il modello hub: distretti in grado di offrire una gamma completa di prodotti e servizi a capo di filiali con poca cassa o addirittura cashless (destinate quindi alle operazioni transazionali di base tramite Atm intelligenti). Il percorso prevede anche l’ulteriore digitalizzazione di processi e servizi per facilitare la migrazione dell’operatività a basso valore aggiunto sui canali diretti. Sarà poi potenziata la struttura organizzativa del segmento corporate.

Se queste sono le principali sfide che la squadra guidata dall’ad Montani dovrà affrontare nei prossimi mesi, non va dimenticato quanto già è stato fatto sul fronte della gestione operativa. In particolare l’intera struttura organizzativa della banca è stata ripensata passando da un modello gerarchico a uno a matrice, per accorciare la catena decisionale e migliorare l’efficacia operativa. In tal modo il management dovrebbe mantenere saldo il controllo sulla banca e prevenire quelle situazioni che troppo spesso hanno caratterizzato gli istituti, in particolar modo quelli di piccole e medie dimensioni, gestiti secondo il vecchio sistema, che conferiva un potere quasi assoluto al presidente-padrone. In quest’ottica sono state create sette strutture di staff: Internal audit, Risk management, Compliance, Comunicazione, Investor relation, Risorse umane e General counsel. (riproduzione riservata)