Infortuni

Autore: Gerardo Marrese
ASSINEWS 255: luglio – agosto 2014

Recentemente è stato posto ad ASSINEWS un quesito sul tema “sinistro da invalidità permanente e principio indennitario” (si può leggere anche sul nostro sito: http://www. assinews.it/assinews_risponde.aspx?art_id=448) e, al di là della risposta data tenendo conto di come lo stesso era stato circostanziato, sembra opportuno fare un ulteriore approfondimento allo scopo di fare chiarezza su un argomento sul quale tuttora dottrina e giurisprudenza non sono giunte ad avere un orientamento univoco.
Se ci si sofferma a considerare la polizza infortuni nella sua triplice prestazione del caso morte, invalidità permanente e inabilità temporanea, dopo un percorso rappresentato da tre fasi in successione, si è giunti, con la sentenza della Cassazione SS.UU. n. 5119 del 10/4/2002, alla condizione attuale, che si concretizza nel ritenerla – pur con qualche sentenza contraddittoria – un contratto misto, nel senso che mentre per la I.P. e la I.T. è da attribuire senza dubbio al settore danni con tutte le implicazioni degli artt. 1882 c.c. e seguenti fino al 1916 c.c., per il caso morte la prestazione si assimila ad una polizza vita.
Nell’excursus presentato da Marco Rossetti, magistrato della Cassazione, in ASSINEWS n. 196¹ l’evoluzione interpretativa della polizza infortuni è chiarissima e si conclude con l’auspicio che anche per il rischio “morte” l’assicurazione debba essere considerata propria del settore danni, senza alcun riferimento al settore vita ed ai relativi artt. 1919 c.c. usque 1927. Pur nella chiarezza delle argomentazioni nasce il dubbio che si prescinda da una considerazione di fondo circa l’impostazione della polizza infortuni, che la stessa S.C. sembra ignorare: alcune compagnie lo esplicitano nella definizione di Invalidità permanente, ma tutte, richiamando la tabella delle invalidità, sia ANIA che Inail, dicono esplicitamente che l’invalidità viene valutata come perdita della capacità generica allo svolgimento di qualsiasi lavoro proficuo, indipendentemente dalla propria professione.
In questi termini è più immediato comprendere perché la polizza infortuni (per ora unicamente per l’assicurazione IP ed IT) venga a tutti gli effetti considerata una polizza danni, cui si applica, di conseguenza, il principio indennitario.
La somma da assicurare con la polizza infortuni è commisurata alla capacità generica o specifica allo svolgimento del lavoro, la cui perdita determina un danno patrimoniale (danno emergente e lucro cessante).
In tale valutazione non è certamente compreso il danno non patrimoniale:² nella polizza infortuni l’assicuratore infatti assume l’obbligo di indennizzare unicamente la perdita della capacità lavorativa senza alcun riferimento al “valore” della vita umana, anche se ancora oggi, qualora l’infortunio abbia come conseguenza la morte, la prestazione è equiparata e regolamentata come una polizza vita.

In tal senso le compagnie, nella fase di assunzione del rischio, fanno riferimento all’attività professionale per determinare la congruità della somma che l’assicurando chiede di assicurare.
In realtà, forse in memoria di quanto sostenuto In una prima fase (dagli inizi del secolo XX alla fine degli anni ‘50) dalla Cassazione che riteneva l’assicurazione contro gli infortuni analoga all’assicurazione sulla vita, nessuna compagnia ad oggi³ – una volta emessa la polizza – contesta la congruità della somma assicurata anche quando, per la coesistenza di coassicurazioni indirette, la sommatoria delle prestazioni dovute da più assicuratori possono assumere entità rilevanti.
Proprio per evitare situazioni del genere una delle condizioni generali di polizza (come per altro nel settore danni) pone l’obbligo (talvolta derogato) all’assicurato di comunicare l’esistenza di altre polizze con le relative prestazioni. Fermo allora che in caso di morte vengono erogati ai superstiti tutte le somme assicurate con le varie compagnie (in ciò operando come il ramo vita), si può constatare che anche nel caso di I.P. ciascuna compagnia, sulla base della percentuale di invalidità medicalmente accertata, versa la somma assicurata nei termini dovuti con la propria polizza come se le altre non esistessero; in altri termini non viene posto in essere il principio indennitario in quanto non si tiene in alcun conto la reale capacità lavorativa del soggetto assicurato.
Si recupera, viceversa, il concetto indennitario soltanto quando il soggetto assicurato, sia pure per eventi diversi in annualità diverse (con premio di ciascuna annualità corrisposto per intero) trova nella somma assicurata con la stessa compagnia il limite indennizzabile anche se ciascun evento abbia comportato invalidità in sé per se inferiori al 100% ma tali da risultare cumulativamente superiori al 100% (ad esempio: perdita di un braccio nel primo incidente e perdita della vista nel secondo incidente); questo perché la capacità lavorativa è unica; una volta perduta interamente o parzialmente non può essere reintegrata perché la somma assicurata rimane il limite cui la compagnia si obbliga ad indennizzare.
Diverso è il caso in cui si debbano confrontare le conseguenze di una invalidità su una polizza infortuni del soggetto infortunato con una polizza di responsabilità del soggetto che ha causato l’infortunio (responsabilità aquiliana) sia nel caso di una RCA che di qualsiasi altra polizza di RC.
Oggi tutte le polizze Infortuni riportano una clausola di rinuncia alla rivalsa da parte dell’assicuratore nei confronti dei terzi responsabili per cui all’indennizzo ricevuto dal proprio assicuratore si può tranquillamente sommare tutto il capitale che dovrà liquidare l’assicuratore del terzo responsabile. Nella fattispecie del quesito in esame sembra che questa condizione non ci sia a tutto vantaggio dell’assicuratore, che una volta indennizzato il sinistro, recupera integralmente dal terzo assicurato o dal suo assicuratore quanto liquidato con i criteri propri della polizza Infortuni.
Va da sé che in questo caso l’assicuratore della RC, che non solo risponde per la perdita della capacità lavorativa (considerata specifica e non generica) ma anche dei danni non patrimoniali (danno biologico, danno morale e/o danno esistenziale considerati distintamente o comunque accomunati sotto la voce “danno biologico”) dovrà detrarre dal risarcimento dovuto dal suo assicurato al danneggiato la quota parte che dovrà essere corrisposta all’assicuratore infortuni che ha acquisito questo diritto per la mancata rinuncia alla surroga nei confronti del suo assicurato.


¹ Il principio indennitario nell’assicurazione infortuni non per il caso morte

² Per altri versi, secondo gli orientamenti attuali della Corte di legittimità, il danno non patrimoniale prescinde dalla capacità lavorativa e si configura nel danno biologico, con eventuale personalizzazione del risarcimento (ovvero aumento del risarcimento) solo nel caso in cui il danneggiato abbia subito un grave nocumento alla salute psico-fisica; in altri termini i pregiudizi in passato definiti come “danno morale = pretium doloris” e “danno esistenziale” oggi possono al più costituire fattore di personalizzazione della liquidazione del danno biologico leso. Dovrà il giudice procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

³ Salvo eccezioni al limite della decenza