Pagina a cura di Duilio Lui  

 

Cambiano le aliquote sui guadagni finanziari. A partire dal 1° luglio il prelievo fiscale ordinario è salito dal 20 al 26%, con poche eccezioni. Un aspetto da considerare nella scelta degli investimenti, almeno per la parte di portafoglio orientata alla valorizzazione nel breve termine.

Che cosa cambia.

L’asticella del prelievo si alza per gli investimenti in azioni, come per quelli in obbligazioni societarie e in commodity, sia che si tratti di acquisti diretti, sia attraverso strumenti come i fondi comuni e gli Etf. Lo stesso vale anche per i rendimenti dei conti correnti e dei conti deposito, oltre che per le cedole azionarie. L’aliquota interviene sui guadagni, per cui se il titolo è stato comprato a 100 ed è arrivato a valere 200, l’imposta da pagare sarà di 26 euro, contro i 20 euro finora previsti. Mentre se il valore è rimasto di 100 (o si è addirittura ridotto), non sono previsti prelievi.

Si tratta del secondo rialzo negli ultimi due anni e mezzo, considerato che il 1° gennaio 2012 il prelievo su azioni, obbligazioni e fondi passò dal 12,5% al 20% (la medesima aliquota fu prevista per i guadagni sui conti correnti e i conti deposito, ma in questi casi si trattò di un adeguamento verso il basso rispetto al precedente 27%). Allora come oggi sono stati risparmiati dai ritocchi i titoli di stato italiani (come i Btp, i Cct e i Bot), per cui i guadagni generati tramite questi investimenti rimangono soggetti al prelievo fiscale del 12,5%. Da mercoledì scorso sono soggetti a questa soglia anche i titoli dei paesi esteri che non rientrano tra i paradisi fiscali, finora tassati al 20%.

Non tutti i passaggi sono automatici. Va considerato che il passaggio dalla vecchia alla nuova aliquota non è omogeneo. Il prelievo del 26% scatterà per i riscatti a partire dal 1° luglio nel caso dei redditi di capitale (dividendi, cedole, interessi dai conti correnti bancari e postali). Mentre sugli interessi dei conti correnti e delle obbligazioni vale invece il principio di maturazione, per cui gli interessi maturati fino al 30 giugno restano comunque tassati al 20%. Al risparmiatore non tocca alcuna scelta, né obbligo. L’automatismo vale anche nel caso del risparmio gestito, con la regolazione delle imposte che avviene pro quota, affidando cioè al gestore l’incombenza di calcolare quanta parte dei guadagni è maturata in vigenza della vecchia aliquota e quanta invece dopo il rincaro. Per quanto riguarda il capital gain (cioè la differenza positiva tra valore di vendita e valore di acquisto), si può decidere di affrancare il valore al 30 giugno, pagando le imposte maturate secondo le vecchie regole e disporre dal 1° luglio di un nuovo valore di partenza dell’investimento.

Quanto conviene l’affrancamento? Per dare una risposta compiuta occorre considerare due elementi: la situazione patrimoniale di portafoglio e dei singoli investimenti (in sostanza se sono in perdita o in guadagno) e la possibilità o meno di compensare la parte di profitto con eventuali minusvalenze degli anni precedenti. Il tutto alla luce delle esigenze personali, a cominciare dall’importanza o meno di disporre di somme liquide nel breve termine.

Check-up di portafoglio. Al di là di questi aspetti, la revisione delle aliquote relative solo ad alcuni strumenti finanziari può incidere sull’asset mix di portafoglio. Per esempio: conviene ancora investire nelle obbligazioni societarie a fronte di un prelievo fiscale più che doppio rispetto ai titoli di stato? Una risposta netta in tal senso è impossibile, ma richiede altre valutazioni, come quelle relative al differenziale di rendimento tra i due prodotti e alle prospettive di rivalutazione di entrambi. Oltre a considerare l’orizzonte di investimento: più è lungo, tanto più la variabile aliquota perde rilievo. Con l’ultima avvertenza che va comunque rispettata la diversificazione di portafoglio per non correre rischi eccessivi.

Più in generale, andrà rivista la preferenza dell’investimento finanziario rispetto ad altri ambiti, come quello nel mattone. Infatti, oltre alle aliquote fin qui descritte, va considerata l’imposta di bollo prevista per tutti gli investimenti (in questo ambito non rientrano i conti correnti): si è partiti nel 2012 con un prelievo dello 0,1%, per poi passare allo 0,15% nel 2013 e allo 0,2% nell’anno in corso. Quindi, su 50 mila euro di risparmi, occorre pagare ogni anno allo stato 100 euro, su 100 mila ben 200 euro. Non è identificata dal punto di vista legislativo come patrimoniale, ma la ratio di questa norma è indiscutibile, considerato che viene tassato lo stock di ricchezza accumulata, al di là del fatto che produca o meno reddito.

Dallo scorso anno c’è poi la Tobin Tax che colpisce il trading in azioni e derivati. Sul primo fronte, l’imposta si applica agli acquisti relativi a società che capitalizzano non meno di 500 milioni di euro (quindi tutte quelle di medie e di grandi dimensioni), con l’aliquota dello 0,10 (10 euro su una transazione di 10 mila euro). Se invece le azioni vengono acquistate sui mercati non regolamentati, i cosiddetti Otc (Over the counter), l’aliquota sale allo 0,20%. Quanto ai derivati, l’aliquota varia in base alla tipologia dello strumento (futures, covered warrants, opzioni, warrants e certificates): si va da 2,5 centesimi per operazione fino ai 20 euro per gli strumenti meno speculativi, mentre per quelli più speculativi il minimo è 12,50 euro per ciascuna operazione, il massimo 100.

© Riproduzione riservata