Davanti alla quantificazione del danno in Italia si usano criteri diversi. Lo dimostra la sentenza 15909 della Corte di Cassazione depositata il 15 luglio, che pone fine a una vicenda partita in Veneto nel 1996 quando un bambino fu ricoverato in ospedale con gravi problemi respiratori. Venne curato per epiglottite la vera patologia è riconosciuta troppo tardi per salvarlo, l’ospedale è chiamato a risarcire la morte, ma i genitori si appellano e chiedono anche il “lucro cessante”, perché il figlio sarebbe cresciuto e, lavorando, sarebbe diventato un riferimento economico.

A Venezia, la Corte d’Appello non riconosce la richiesta e ora la Cassazione conferma la fondatezza del “no” dei giudici di secondo grado. I genitori obiettavano che per risarcirli il tribunale di Venezia avesse utilizzato tabelle diverse da quelle applicate a Milano, ovvero quelle riconosciute dalla Cassazione come parametro nazionale per quantificare il risarcimento del danno non patrimoniale. La Suprema Corte però ha eccepito che il problema delle tabelle diverse non era stato sollevato dall’avvocato della famiglia nei gradi precedenti di giudizio.

Riguardo gli infortuni sul lavoro, sulla strada e in acqua, la legge italiana (articoli 138-139 dlgs 209/2005) quantifica il danno non patrimoniale fino al 9%, mentre dal 10 al 100% l’entità dei risarcimenti che possono essere stabiliti dai tribunali cresce in base a coefficienti diversi; alcuni tribunali poi includono il danno morale, altri lo escludono. Ci sono cinque diversi “criteri”: Milano, adottato da un centinaio di altre sedi, Roma, Firenze, Venezia e Genova. Il criterio milanese dal 2009 riconosce in un “unicum” danno biologico e morale. In questo, le tabelle di Venezia non differiscono molto. La famiglia del bambino ha appunto chiesto di utilizzare un più vantaggioso, e diffuso, criterio risarcitorio mettendo di fatto il dito su una piaga: le differenze tra una scuola di pensiero e l’altro stanno creando discriminazioni tra un italiano e l’altro. La stessa Cassazione con sentenza 12408/2011 aveva adottato le tabelle milanesi come risarcitorie asserendo che senza un riferimento nazionale condiviso si avallavano lesioni dei diritti della persona, ma lo stesso giorno la stessa III Sezione con sentenza 12273 lasciava liberi i giudici di I e II grado di applicare le altre tabelle: una contraddizione? No, il concetto è che non si può accogliere il ricorso di un risarcito sulla sola base dell’uso di questo o quel criterio. “La disparità delle tabelle utilizzate dai vari tribunali per risarcire il danno non patrimoniale è una piaga sulla quale la nostra associazione ormai da anni pungola il legislatore affinché adotti un criterio condiviso”, afferma Luisa Regimenti, presidente della Sindacato italiano specialisti in Medicina legale e delle Assicurazioni (Simsla). “Purtroppo fin qui nessuno si è mosso, non ci sono stati tavoli. Anche Simsla ritiene che le tabelle milanesi siano corrette o comunque siano il punto da cui partire, ma bene sarebbe arrivare a un’interpretazione comune, perché l’alternativa al mettere tutti d’accordo è l’attuale situazione. Specie nel danno da lutto, le disparità risarcitorie sono lesive delle persone danneggiate da criteri più svantaggiosi e aggiungono l’offesa all’irreparabile”.