di Paola Valentini

La cura messa in atto dal governo per contenere la spesa sanitaria pubblica funziona, come emerge dal calo dell’1% nel 2013 a 109 miliardi, ma per le tasche dei cittadini il contenimento dei costi si traduce in un aumento dei ticket o in un taglio dei servizi, o in entrambi nel peggiore dei casi. Con pesanti ripercussioni sui tempi di attesa. Dall’ultima indagine Rbm Salute-Censis 2014 emerge ad esempio che per una prima visita oculistica con il ticket si devono aspettare come minimo quasi 50 giorni nelle strutture pubbliche delle regioni del Nord ovest d’Italia, ma si può arrivare a 125 giorni negli ospedali del Centro.

Se si ha necessità di fare un’ecografia completa all’addome bisogna mettere in conto per avere un appuntamento almeno 35 giorni nel Nord Est fino ai quasi 7 mesi (206 giorni) nelle regioni del centro Italia. In questa situazione gli italiani cercano di resistere come possono e «per tagliare le liste di attesa si rivolgono al privato, non è la qualità del servizio pubblico a essere messa in discussione. Se da un lato, dunque, si razionalizza la spesa alimentare e si riduce tutto ciò che è considerato superfluo, alle cure non si rinuncia, anzi verosimilmente la loro domanda sarà in crescita», spiega una ricerca di Welfare Italia (nata da una collaborazione tra Unipol e Censis).

«Sono sempre di più gli italiani che pagano di tasca propria i servizi sanitari che il pubblico non garantisce più. La spesa sanitaria privata degli italiani (la cosiddetta spesa out of pocket, ndr) è pari a 26,9 miliardi di euro nel 2013 ed è aumentata del 3%, in termini reali, rispetto al 2007. Nello stesso arco di tempo la spesa sanitaria pubblica è rimasta quasi ferma (+0,6%). In altri termini i cittadini sostengono ormai direttamente il 20% della propria spesa sanitaria con un costo annuo pro capite di quasi 445 euro», dice Marco Vecchietti, Consigliere Delegato di Rbm Salute. Una spesa che rischia di diventare insostenibile.

Non a caso da un sondaggio condotto da Unipol-Censis su un campione di 1.200 famiglie emerge che il 31% ha indicato di avere rinunciato almeno una volta negli ultimi due anni a visite specialistiche o a esami diagnostici o a cicli di riabilitazione per motivi economici. Allargando lo sguardo all’intera platea di nuclei familiari italiani, che sono 21,5 milioni, si tratta di 10 milioni di famiglie e quindi altrettante prestazioni inevase. «La logica per cui il cittadino paga di tasca propria quello che il sistema pubblico non è più in grado di garantire è arrivata all’estremo», afferma il Censis che ha presentato al IV «Welfare Day» la ricerca Rbm Salute-Censis sul ruolo della sanità integrativa. La fotografia che emerge da quest’analisi è preoccupante.

«Gli italiani sono costretti a scegliere le prestazioni sanitarie da fare subito a pagamento e quelle da rinviare oppure da non fare. Così, crolla il ricorso al dentista a pagamento, oltre un milione di visite in meno tra il 2005 e il 2012, ma nello stesso periodo aumentano gli italiani che pagano per intero gli esami del sangue (+74%) e gli accertamenti diagnostici (+19%)», spiega il Censis. Inoltre, cresce anche la spesa per i ticket, sfiorando i 3 miliardi di euro nel 2013: +10% in termini reali nel periodo 2011-2013, anche se, rileva ancora l’analisi, «ormai il 41,3% dei cittadini paga di tasca propria per intero le visite specialistiche».

E questo accade per accorciare i tempi di attesa. «Per effettuare una prima visita oculistica in una struttura pubblica il ticket costa 30 euro e c’è da aspettare mediamente 74 giorni, mentre nel privato, pagando in media 98 euro, si aspettano solo 7 giorni. Per una prima visita cardiologica si pagano 40 euro di ticket e la lista d’attesa è di 51 giorni, nel privato con 107 euro si aspettano 7 giorni», sottolinea la ricerca. «In sintesi, se si vogliono accorciare i tempi di accesso allo specialista bisogna pagare: con 70 euro in più rispetto a quanto costerebbe il ticket si risparmiano 66 giorni di attesa per l’oculista, 45 giorni per il cardiologo, 28 per l’ortopedico, 22 per il ginecologo», sottolinea Censis. Stessa situazione per gli accertamenti diagnostici e riabilitazione: «tempi biblici o fuga nel privato», dice il Censis. Non a caso, il rapporto Rbm Salute-Censis rileva che secondo gli italiani la sanità peggiora: il 38,5% degli italiani (erano il 28,5% nel 2011) ritiene che la sanità della propria regione sia peggiorata negli ultimi due anni, per il 56% è rimasta uguale e solo il 5,5% ritiene la sanità regionale migliorata. Nelle regioni che prevedono un Piano di rientro la percentuale di cittadini che ritengono peggiorata la sanità schizza al 46,8%, mentre nelle altre regioni è pari al 29,3%. «Integrare pubblico e privato diviene, così, un’opportunità rilevante, per compensare una domanda cui la sola sfera pubblica non è più in grado di fare fronte», sottolinea lo studio di Welfare Italia.

Ma integrare significa anche attivare una razionalizzazione dell’offerta di servizi e prestazioni sanitarie. «La presenza di operatori privati specializzati e qualificati sia nel campo delle prestazioni sanitarie che dell’assistenza, con servizi resi accessibili attraverso strumenti assicurativi integrativi, peraltro, permette di allargare il perimetro di un settore ad alto valore aggiunto, ovvero quello della cosiddetta white economy, i servizi per la cura e la tutela della salute, oltre che per l’assistenza personale», afferma ancora la ricerca di Welfare Italia. Oggi si stima che la white economy in Italia generi oltre 186 miliardi di valore della produzione e impieghi più di 2,7 milioni di addetti, tra personale medico, paramedico, addetti nei servizi socio-assistenziali, ricerca, produzioni biomedicali, industria farmaceutica.

È quindi rilevante il ruolo che possono giocare fondi, polizze sanitarie integrative e Casse mutue (cui oggi sono iscritti circa 6 milioni di assistiti). Anche perché in Italia, secondo un’analisi di Rbm Salute e Previmedical, «c’è un livello di spesa out of the pocket appena inferiore rispetto alla media dei Paesi Ocse, cioè il 20% del totale della spesa sanitaria del Paese. Ma a differenza dell’estero, la sanità complementare in Italia copre solo 3,8 miliardi, poco più del 13% dell’importo totale della spesa out of pocket, ovvero il 40% in meno rispetto alla media Ocse», dice Vecchietti di Rbm Salute che ha lanciato, in occasione del Welfare Day, Tuttasalute-online, la prima polizza salute individuale che copre le prestazioni sanitarie online a partire da poco più di 1 euro al giorno.

«L’Italia, inoltre, resta una delle poche economie avanzate in cui la spesa out of pocket intermediata, ovvero coperta da assicurazioni di tipo integrativo o da strumenti simili, rappresenta una quota molto bassa del totale della spesa sostenuta di tasca propria», spiega il rapporto di Welfare Italia. In Germania l’out of the pocket intermediato è il 43% del totale, il 65,8% in Francia, il 76,1% negli Stati Uniti.

«Il dato italiano fa molto riflettere e lascia immaginare lo spazio che esiste per allargare il perimetro di azione sia del pubblico che degli operatori privati, ma soprattutto per ridisegnare gli equilibri tra i due attori», prosegue il rapporto Welfare Italia, «in questa prospettiva si pongono le proposte, di alcuni operatori privati, in primis Unipol, di attivare fondi sanitari integrativi di tipo territoriale, con una forte compartecipazione degli Enti locali».

Il ruolo dei fondi integrativi è importante per contribuire a dare un volto nuovo alla sanità pubblica, di cui va salvato l’universalismo rendendola allo stesso tempo sostenibile visti i trend di invecchiamento della popolazione. «

Certamente pilastro fondamentale della sostenibilità del welfare è la crescita del sistema Paese nonché il recupero di efficienza del Servizio Sanitario Nazionale e del sistema di protezione sociale. Passi in avanti il Ssn ne ha compiuti nell’ultimo decennio, anche se molto resta da fare», commenta Grazia Labate, ricercatrice in Economia sanitaria all’Università inglese di York ed ex sottosegretario alla Sanità nel governo Amato. «Non c’è nessun attentato al Ssn, nessuno dei due pilastri di fatto esistenti potrebbe vivere senza l’altro. Lo dimostra l’esperienza europea, dove il pilastro pubblico si accompagna al secondo pilastro e non esiste un out of pocket così elevato come da noi», afferma ancora Labate. Il problema è quindi governare la domanda e soprattutto quei quasi 27 miliardi di spesa sostenuta di tasca propria.

«Occorre una grande capacità di informazione, un contatto territoriale capillare per convogliare quella domanda individuale e solitaria verso forme di socializzazione del rischio, altrimenti è alto il rischio di impoverimento, spese catastrofiche o rinuncia alla cura, come dimostrano le analisi di Istat, Ceis e Università Tor Vergata», avverte Labate.

Anche sul fronte dell’assistenza a disabili e anziani, gli spazi di sviluppo sono ampi.

«Disabilità e assistenza domiciliare integrata (long term care), in particolare, sono ambiti in cui la combinazione tra pubblico e privato può rappresentare una risposta efficace a bisogni crescenti», afferma il rapporto di Welfare Italia. Non a caso Unipol ha appena arricchito l’offerta di polizze sanitarie di Unisalute (acquistabili online su www.unisalute.it) inserendo tre coperture ad hoc per la prevenzione cardiovascolare, la fisioterapia e l’assistenza domiciliare, anche per gli over 65. Le polizze hanno un premio fisso e contenuto e l’acquisto è immediato, direttamente online con carta di credito, perché non prevedono il questionario sanitario. Le nuove polizze coprono cure e assistenza in caso di infortunio anche a domicilio e danno accesso alle tariffe scontate presso la rete di strutture sanitarie UniSalute con un risparmio medio del 30% per le cure fisioterapiche e del 41% per visite, esami e accertamenti.

Tariffe speciali presso i dentisti convenzionati UniSalute con risparmio medio del 41% rispetto ai costi medi anche per la polizza Unisalute Dentista che offre il Piano Dentista Ragazzi (dai 3 ai 17 anni) a 160 euro l’anno. Da una ricerca Unisalute risulta proprio che nell’ultimo anno un italiano su 4 non è andato dal dentista e il 37% non lo ha fatto per motivi economici. Ma non è solo la cura dei denti a essere un’area a rischio. La sfida è dare una risposta a quei 10 milioni di famiglie che hanno rinunciato a curarsi. «È plausibile pensare che se a una domanda così consistente di prestazioni si fosse data risposta, si sarebbero immesse nel circuito economico risorse dall’impatto non irrilevante», afferma il rapporto Welfare Italia.

Dal sondaggio Censis e da Unipol, inoltre, risulta che appena il 18% del campione ha sottoscritto uno strumento integrativo delle spese per cura o (molto più raro) per assistenza.

«Si tratta di numeri piuttosto contenuti rispetto all’estensione della platea di soggetti che potrebbero sottoscrivere questi strumenti. Peraltro si stima, dai dati raccolti, che 5 milioni di persone, sarebbero interessate a conoscere meglio questi strumenti ed eventualmente, a determinate condizioni, soprattutto di costo, a sottoscriverli», calcola Welfare Italia. La palla passa a fondi sanitari, assicurazioni, Casse mutualistiche, aziende e organizzazioni sindacali e soprattutto al governo. Tutti devono innovarsi per cogliere questa opportunità che si apre per la sanità italiana. (riproduzione riservata)