di Angelo De Mattia

La grave vicenda Ligresti, tra le tante osservazioni che suggerisce, ripropone il tema dell’efficacia dei controlli delle Authority e quello della loro riforma, anche se, per le assicurazioni, con la creazione dell’Ivass, si è compiuto un deciso passo in avanti.

Giovedì 18, Vittorio Conti, membro del collegio della Consob, è arrivato al termine del mandato settennale, per legge non riconfermabile.

Ne parliamo qui per due ragioni. La prima, perché Conti, di lontana provenienza Banca d’Italia, poi passato a Intesa e a un impegno accademico, è stato un punto di forza dell’istituzione. Per un certo periodo ha svolto anche le funzioni di reggente della presidenza, allorquando, dopo l’uscita di Lamberto Cardia, il governo Berlusconi tardava lungamente a nominare il nuovo presidente. Nella funzione vicaria esercitata per alcuni mesi, Conti diede subito la dimostrazione delle sue capacità di coordinamento innovative e della netta cesura con la quanto meno grigia gestione del suo predecessore.

 

Nel settennato, egli si è dimostrato particolarmente sensibile all’analisi delle trasformazioni dei mercati per cogliere punti di forza per avanzamenti sul piano della trasparenza, della regolamentazione, dei controlli, nonché delle relazioni con l’estero in tema soprattutto di nuovi prodotti finanziari. Conti dovette anche affrontare la querelle promossa da alcuni parlamentari leghisti che volevano il trasferimento della sede centrale della Consob a Milano. Egli, dopo avere ricordato che una sede importante della Commissione è da tempo esistente e operante nel capoluogo lombardo, dimostrò dati alla mano, anche nel corso di una delicata audizione parlamentare, i gravi costi che – a tralasciare il resto, e si tratta di non poca cosa – il trasferimento avrebbe comportato sul piano dei rapporti istituzionali, del funzionamento, delle risorse umane, delle strutture. Dopo le controdeduzioni di Conti sviluppate in diverse sedi, del trasferimento non si parlò più, forse anche perché alcuni di quei parlamentari si convertirono nel trasferimento a Monza di determinati uffici pubblici, in particolare del Tesoro: una vicenda finita in piscem, come meritava.

Il secondo motivo riguarda le dirette conseguenze dell’uscita di Conti e, più in generale, la riforma delle Authority. Poiché la revisione promossa dal governo Monti stabilisce che il collegio delle Autorità in questione non può essere formato da più di tre membri, quello della Consob non sarà ora integrato, ma dovrà esserlo solo alla fine del corrente anno, quando verrà a scadenza l’incarico di un altro componente.

Dal suddetto governo, la riduzione a tre dei membri dei collegi è stata presentata come una riforma sostanziale, quando invece si tratta di una leggera riduzione dei costi, più che sfavorevolmente bilanciata dalla riduzione della dialettica e della necessaria interdisciplinarità globale che una Commissione con cinque componenti meglio consente, unitamente al migliore utilizzo delle singole specializzazioni e culture professionali. Si è guardato esclusivamente il dato, non sottovalutabile, delle economie da praticare, molto meno alla funzionalità e alla complessità dei compiti soprattutto di alcune Authority, tra esigenze nazionali e crescenti impegni comunitari e internazionali. Soprattutto, si è imboccata una tale strada, non volendo evidentemente percorrere l’altra, quella della vera riforma che avrebbe comportato un processo di disaggregazione e aggregazione di funzioni tra Autorità, in specie di quelle operanti nel campo del credito e del risparmio, obbedendo all’indirizzo della loro specializzazione per finalità, dettando criteri oggettivi, trasparenti e meritocratici per l’assunzione delle cariche di vertice e prevedendo specifiche modalità di riscontro parlamentare. Ora che, a livello comunitario con il progetto in corso di centralizzazione della Vigilanza bancaria, la materia in generale è in evoluzione, bisognerebbe cogliere questa occasione per una riforma seria. Di una rivisitazione si parla dagli inizi degli anni Duemila, quando alla Camera dei deputati Antonio Maccanico promosse un’indagine conoscitiva sulle Autorità, che avrebbe dovuto costituire la base per un processo di riforma. Il lavoro fu compiuto; fu redatto un rapporto finale, ma poi la materia non ebbe alcun seguito. Fu ripresa, qualche anno dopo, dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che aveva il perenne obiettivo di ridimensionare la Banca d’Italia, approdando alla progettazione di una sorta di super organo di vigilanza, competente in diversi settori, ma l’idea non fece strada, date le numerose incongruenze sostanziali e formali. Si approdò, invece, alla legge pretenziosamente denominata sulla tutela del risparmio (262/2005) che agisce, tra l’altro, sui raccordi tra Autorità, accrescendo la complessità piuttosto che ridurla e rendere più organici e tempestivi gli interventi. Si tratta, comunque, di una legge ampiamente superata per diversi aspetti e contenente norme, come quella sulla proprietà della Banca d’Italia, dagli evidenti profili di incostituzionalità, che l’attuale governo si accinge a rimuovere. Si arriva, quindi, al secondo governo Prodi, quando, primo firmatario Enrico Letta, viene presentato un serio progetto di riforma che, però, per alcuni difetti di ordine costituzionale viene bloccato al Senato e viene, pure esso, a decadere. Abbiamo poi vissuto la tempesta finanziaria globale perfetta. Sono state innumerevoli le volte nelle quali, nell’affrontare la materia delle regole e dei controlli, si è parlato della necessità del riordino e del rafforzamento delle Autorità di Vigilanza, senza un seguito coerente.

 

L’unico progresso, come accennato, è stata la costituzione dell’Ivass che succede all’Isvap per la vigilanza sulle assicurazioni e, pur avendo personalità giuridica propria e autonomia, viene incardinato nella Banca d’Italia, a fronte di un progetto originario che invece prevedeva tout court l’assegnazione a quest’ultimo Istituto delle competenze dell’Isvap in materia di tutela della stabilità e di sana e prudente gestione e con esse il conferimento anche delle attribuzioni della Covip, la Commissione di controllo sui fondi pensione. Quest’ultima, dopo una serie di indecisioni del governo Monti, è stata però espunta dalla riforma e oggi, venute a scadenza la carica del presidente e quella di un componente e non essendosi colpevolmente provveduto tempestivamente al rinnovo, è rimasta con un solo componente di vertice, mentre il governo continua a indugiare nell’assumere le necessarie decisioni per ricostituire il plenum dell’organo.

Sarebbe ora il caso di riprendere la materia e di formulare, da parte dell’esecutivo, una valida proposta riformatrice e, intanto, di provvedere, sia pure con una ravvicinata prospettiva di durata in carica, alla reintegrazione del vertice della Covip; a meno che non si temporeggi per riprendere il progetto per una confluenza delle relative funzioni nella Banca d’Italia. Se si tardasse ancora, risulterebbe del tutto inspiegabile perché non si promuova una riforma che sarebbe a costo zero. Intanto, passi ancora più spediti si potrebbero compiere nel rafforzamento dei poteri di alcune Autorità nelle materie segnalate dal presidente della Consob, Giuseppe Vegas, nella sua relazione al mercato e nella Vigilanza bancaria, attribuendole il potere di removal dei componenti gli organi deliberativi, al ricorrere di determinate ipotesi. È ora, anche in questi campi, di dare segnali validi del fare. Il caso Ligresti è l’ennesimo campanello di allarme. (riproduzione riservata)