di Costanza Rizzacasa d’Orsogna @CostanzaRdO

Al bar i curiosi non lo mollano un secondo. Giù complimenti, foto, richieste di aiuto, perfino dei consigli. Nicola Porro, vicedirettore del Giornale, anima di Virus – Il contagio delle idee (mercoledì in prima serata su Rai Due) ed ex co-conduttore di In Onda (da cui è stato licenziato quasi in diretta tv da un editore forse un po’ piccato per il suo passaggio in Rai), ha saputo navigare le difficili acque del giornalismo tv, diventando una piccola celebrità.

Certo, le critiche non mancano. Dal solito Aldo Grasso, neanche cattivissimo peraltro («Porro si mostra troppo compiaciuto: un po’ più di umiltà servirebbe a migliorare»), al Fatto Quotidiano, che gli rimprovera di non riuscire ad approfittare, sugli ascolti, della chiusura estiva di altri talk (l’ultima puntata di Virus è stata vista da un milione di telespettatori, col 5,47% di share), fino a Gianluigi Paragone, che forse un filo avvelenato per non aver ottenuto il prime time con L’ultima parola (slot assegnato a Porro, appunto, da cui il passaggio di Paragone su La7), l’ha accusato su Twitter di copiare gli ospiti del suo vecchio programma.

Domanda. Grasso però ha ragione quando parla di un modello di talk fondato sulla presunzione che gli ospiti abbiano qualcosa da dire. Cosa può aggiungere di valido una Gelmini, che tratteggia un tunnel dei neutrini fra la Svizzera e l’Abruzzo, dice “dreams team” e scambia per un “santoriano” il giornalista del Foglio Claudio Cerasa?

Risposta. Bisognerebbe dire ai critici tv e a quelli da bar, che sono poi la stessa cosa: “Venite voi a fare gli autori tv, se avete delle buone idee”. Il rimprovero di Grasso è come dire a un minatore, “Puoi essere un po’ più pulito?” Giusto, per carità, ma magari quello va in miniera per portare i soldi a casa.

D. Lo sa, vero, che adesso la seppelliranno per essersi paragonato a un minatore?

R. Okay, forse il confronto non era dei più calzanti: dico solo che è molto dura anche per noi. Sulla Gelmini in particolare, poi, non condivido. Chiunque chiamassi del centrodestra direbbe le stesse cose.

D. Sui neutrini?

R. Mi ha capito. Qualche puntata fa ho cercato di invitare Mara Carfagna. Il suo ufficio stampa ha chiesto chi altri sarebbe venuto in trasmissione, poi hanno detto, “No, no, così faremmo la bionda e la bruna”, e hanno declinato. Un’altra volta è stato uno del Pd a rifiutarsi di affiancare un certo pidiellino. Va benissimo, ma io il programma lo devo pure fare con qualcuno. Se mi trovate un genio, uno che dica cose straordinarie, lo prendo subito. Pensate che sia scemo o masochista?

D. Forse solo un po’ frustrato. Mentana le direbbe, come a Renzi, “Non faccia il piangina”.

R. Ci mancherebbe. Lo sforzo di Virus è anche quello di portare sul piccolo schermo persone che non sono mai venute. Ovviamente con le regole del salotto tv. Per esempio l’altra sera, seduto fra il pubblico, c’era Manfredi Catella.

D. L’immobiliarista sfuggente (alle interviste).

R. Ecco, appunto. Guardi il tentativo di umanizzazione della mia intervista a Marco Tronchetti Provera. Per trovarne un’altra simile sono dovuto tornare indietro fino ad Enzo Biagi.

D. Addirittura. Ma perché far fare il tuttologo a Luigi Bisignani, che ancora un po’ e parlava anche del royal baby, alla stregua di un tronista?

R. Quello è un problema di Bisignani, non mio.

D. Il Fatto la rimprovera di essere troppo amabile con gli ospiti.

R. È la mia cifra. Non mi sento investito da una missione, come certi colleghi. Non sono il grande inquisitore. Invito personaggi intriganti, e cerco di capire cosa gli sta dietro. Per esempio, faccio sempre una domanda sul rapporto con le donne, fondamentale per capire un uomo. Così Bisignani in trasmissione ha raccontato della telefonata in cui la moglie gli chiedeva di comprare l’ammorbidente Coccolino. Col risultato che il Coccolino finì nelle intercettazioni, scambiato dal maresciallo di turno per un nome in codice. Oppure quando ho fatto vedere a Tronchetti un servizio in cui sua moglie Afef confessava di non amare la barca. E lui, che ha tempi televisivi straordinari, ha replicato, “Non ama la barca, ma ama me”.

D. Ho capito, vuole rubare il posto ad Alfonso Signorini. A proposito: uno con la chiara attitudine al tronismo, che ogni settimana grazia le pagine del gossip, è Matteo Renzi. Mattia Feltri, sulla Stampa, l’ha sbeffeggiato così: “Nei prossimi dieci giorni, con interviste a Corriere, Repubblica, Unità, Guerin sportivo, Sale & Pepe, DentistaOggi e IlTruciolo.it, Renzi spiegherà le ragioni per cui non intende più rilasciare interviste”.

R. Voi proprio non capite. Matteo Renzi, quando va da Enrico Mentana, come l’altra sera a Bersaglio Mobile, fa il record di ascolti. Ha un tasso di fiducia elevatissimo, che supera anche quello di Giorgio Napolitano. La sua strategia funziona, ed è fatta proprio da gente di tv. Gli aventi diritto al voto, in Italia, sono alcune decine di milioni; gli intellettuali solo qualche centinaio. Ricorda quando ridicolizzavano la discesa in campo di Berlusconi nel 1994, con il kit del candidato, le mentine, le convention e gli spot tv? Oggi Renzi parla a una pancia enorme del Paese. È chiaro che questa tattica di “occupazione” mediatica non può continuare all’infinito, che alla fine Renzi dovrà trovare il proprio ruolo: ma la sua grandissima capacità di dialogare con la gente è indubbia. Capacità che sottovalutiamo, proprio come allora la sottovalutavamo in Berlusconi.

D. E Pippo Civati, che replica in piccolo la stessa strategia?

R. Civati occupa legittimamente uno spazio a sinistra del Pd. E come Renzi, il modo in cui lo fa non mi scandalizza affatto. Renzi e Civati rispondono a due modi di pensare di sinistra diametralmente opposti. Conservatore Civati, più rivoluzionario e innovatore Renzi, sia pure con tutte le sue paraculaggini. Ma Renzi e Civati non possono coabitare nel Pd. Il loro dualismo è la dimostrazione plastica che quel partito è un figlio di un problema genetico, la fusione a freddo tra Dc e Pci. Problema che diventa clamoroso quando si perde, e sopportabile e più nascosto se si vince. La forza di Renzi, in particolare, è l’essere il primo leader post-berlusconiano che la sinistra abbia mai avuto. Motivo per cui non si pone il problema di Berlusconi, come invece quasi tutti nel partito. La forza di Renzi è che va oltre il Pd e oltre Berlusconi.

D. Lei è milanese d’adozione. Giorni fa, dopo l’arresto della famiglia Ligresti, ha scritto un editoriale sulla vigliaccheria di una certa Milano che ieri faceva a gara per farsi invitare ai party nel negozio della figlia Giulia e oggi cancella da Facebook le foto insieme a lei. Si riferiva a qualcuno in particolare?

R. Non mi va di fare nomi, perché ne dimenticherei troppi. In questi anni, tutta la borghesia milanese ha frequentato i Ligresti, facendo la fila per chiederne i favori, invitandoli nei propri palazzi e inserendoli nei propri cda. Ora si sono tutti volatilizzati. Questo atteggiamento mi fa orrore. È insopportabile una borghesia che non abbia il coraggio delle proprie frequentazioni. Al di là delle motivazioni dell’arresto, se frequenti delle persone te ne assumi le responsabilità, anche umane. Purtroppo Milano è una città di gente pavida, ipocrita, senza spina dorsale. Tanto vigliacca nei rapporti umani quando sfacciata nelle attività imprenditoriali e finanziarie. Da romano trapiantato a Milano, dico che Milano è diventata come Roma. Nella Capitale c’è sempre stata un’aristocrazia sonnolenta e una politica al comando. A Milano una volta c’erano una grande borghesia al comando e una politica ancillare. Adesso la situazione è ribaltata. Dalla sanità alle costruzioni, l’imprenditoria è diventata dipendente dallo Stato. Dov’è la borghesia illuminata che faceva grande questa città? Si è liquefatta con le proprie aziende.

D. La politica milanese, poi, non brilla certo per la lungimiranza dei suoi protagonisti. Si pensi all’assessore-gaffeur Franco D’Alfonso, quello del gelato e dell’affaire Dolce e Gabbana.

R. Vorrei una Milano che si alzasse in piedi e gridasse, “Per uno così in Comune non c’è posto”. Oggi sempre meno aziende puntano su Milano: quelle che ci sono, tu città devi trattarle come le tue eccellenze. E’ come con il Colosseo, che viene chiuso per fare l’assemblea e chissenefrega dei turisti. È come quei palazzi di Corso Venezia, che sembrano normali poi sbirci e vedi che si aprono su cortili immensi. Ecco, Milano oggi è capace di fare ragionamenti solo all’interno dei propri palazzi.

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