di Luca Enriques*

Luca Enriques ha da poche settimane lasciato l’incarico di commissario Consob. Ma prima di abbracciare il nuovo incarico di docente negli Stati Uniti ha dato alle stampe per i tipi IBLlibri Le regole della finanza. Nel primo capitolo affronta una questione cruciale: i giudici italiani dispongono delle necessarie competenze per rivestire il ruolo loro attribuito dalle recenti riforme del diritto societario in Italia? Con chiarezza e precisione, Enriques dimostra che nel contesto italiano vi sono gravi motivi di preoccupazione circa il modus operandi dei magistrati. Egli sostiene che, a differenza di quanto avviene negli Usa, dove sembra che i giudici abbiano più a cuore il loro posto nella storia che il compito di fare giustizia, in Italia sembra sussistere il problema opposto: i giudici non sembrano interessati a spiegare le loro sentenze e non nutrono particolari timori per i possibili danni anche economici che esse possono procurare alla comunità. Ma ecco le sue conclusioni sull’argomento. […] Quando decide una controversia societaria, il giudice del Tribunale di Milano si pone il problema degli effetti che la propria decisione potrà avere sul comportamento della generalità dei soggetti che in futuro si troveranno in una situazione analoga? Quest’ultimo profilo d’indagine è senza dubbio il più discutibile, anzitutto per ragioni di metodo. Si può infatti dubitare che la lettura delle sentenze sia strumento appropriato per cercare di rispondere a questa domanda […]. E tuttavia, se spostiamo lo sguardo sui provvedimenti resi in queste materie dai giudici americani, osserviamo che spesso una valutazione degli effetti che la decisione potrà avere sulla generalità dei consociati è contenuta nel testo stesso delle sentenze e induce talvolta i giudici a pervenire a una soluzione diversa da quella che essi ammettono di ritenere più giusta nel caso concreto, pur di non lanciare il segnale sbagliato alla comunità di riferimento. Per fare solo un esempio eclatante di sentenza che esprime con forza questo tipo di preoccupazione, possono citarsi le parole del giudice Cardozo, nel caso Meinhard v. Salmon, a proposito dei doveri cui è tenuto un fiduciario: «Il fiduciario deve osservare qualcosa di più severo della morale prevalente sul mercato, non la semplice onestà, ma il puntiglio del più marcato dei sentimenti d’onore è il canone di comportamento a lui richiesto. […] Solo così il livello della condotta dei fiduciari è stato mantenuto a un livello più elevato di quello tracciato dalla folla. Esso non sarà consapevolmente abbassato da una decisione di questa Corte». A contrariis, potrebbe obiettarsi che in Italia, a differenza che nei Paesi di Common Law, il precedente giurisprudenziale non ha forza vincolante, tanto meno di un giudice di primo grado, e che pertanto non ha molto senso aspettarsi che i giudici di tribunale s’interroghino sulla possibilità che la propria decisione esprima una regola generale alla quale in future altri si sentiranno vincolati. A questa obiezione può rispondersi, in primo luogo, che la differenza tra sistemi di civil law e sistemi di common law sotto il profilo del valore del precedente giudiziale è assai più sfumata di quanto si pensi: «Anche nei sistemi continentali da tempo si è presa coscienza che sebbene il giudice non sia tenuto a uniformarsi ad altre decisioni, di fatto i precedenti esplicano una efficacia persuasiva, che concorre a determinare gli orientamenti giurisprudenziali». Inoltre, all’obiezione che l’organo giudicante le cui decisioni sono qui oggetto d’indagine è soltanto di primo grado può ribattersi, anzitutto, che nella materia di cui tratta non è infrequente che la parte attrice cerchi un rimedio cautelare la cui concessione è essenziale affinché essa abbia un interesse alla prosecuzione della controversia (è il caso in particolare delle impugnazioni di delibere assembleari); in secondo luogo, la frequenza dei richiami a precedenti del Tribunale di Milano contenuti in quasi tutte le sue decisioni in materia societaria è un chiaro indizio dell’efficacia persuasiva dei precedenti sui suoi stessi giudici. Potrebbe, infine, obiettarsi che è e deve essere estraneo ai compiti del giudice quello di interrogarsi sugli effetti delle proprie decisioni sulla generalità dei cittadini: il giudice, secondo questa impostazione, dovrebbe limitarsi a dichiarare qual è, secondo il sistema di regole generali ed astratte delineato dal legislatore, il diritto applicabile nel caso di specie, astenendosi dal valutare se la regola di diritto da lui dichiarata applicabile sia giusta e/o opportuna e/o efficiente, poiché così facendo invaderebbe il campo delle scelte politiche riservate al potere legislativo. In altri termini, il principio di separazione dei poteri vieterebbe, in sostanza, ai giudici di esplicitare eventuali proprie valutazioni sugli effetti delle proprie decisioni. È sufficiente al riguardo osservare che questa visione formalistica del processo decisionale del giudice, al di là di ogni considerazione ideologica, è ben lontana dalla realtà e che l’ipotetico divieto di esplicitare questo genere di valutazioni nelle sentenze può avere il solo effetto di offuscarne l’efficacia di segnalazione. In secondo luogo, non è affatto pacifico che il giudice debba astenersi da questo genere di valutazioni e, in particolare, da valutazioni in termini di efficienza della regola di diritto applicata nel caso di specie: secondo un autorevole e non certo isolato orientamento, infatti, il giudice ha il dovere, al contrario, di giustificare le proprie decisioni (nei limiti, ovviamente, in cui ciò non contrasti con il tenore letterale delle disposizioni che è chiamato a interpretare) guardando alle conseguenze anche economiche che l’interpretazione prospettata può produrre nel tessuto sociale. Premesso ciò, nelle stanze del Tribunale di Milano si è andati alla ricerca di frasi che rivelassero, sia pur senza la retorica del giudice Cardozo, una qualche preoccupazione per i segnali che l’adozione di una soluzione piuttosto che di un’altra avrebbe lanciato alla generalità dei destinatari delle norme di diritto societario ovvero di decisioni che segnalassero anche l’intenzione di non incidere negativamente sul comportamento futuro di tali soggetti. Si è rinvenuta una sola sentenza che presenta, in qualche misura, elementi di questo tipo. Si tratta del provvedimento con il quale il Tribunale di Milano ha accolto l’azione di responsabilità promossa da La Centrale contro i propri amministratori, per il dissesto della società conseguente alla gestione di Roberto Calvi. Il tribunale accolse la domanda giudiziale per quanto concerne le operazioni di acquisto di una società editrice decotta, Il Gazzettino, e della società Rizzoli, che versava in stato di crisi, per un prezzo particolarmente elevato, in entrambi i casi, com’è noto, trattandosi di operazioni motivate molto più da ragioni politiche che da considerazioni imprenditoriali in senso stretto. La Corte milanese negò invece la responsabilità degli amministratori per una terza operazione descritta in questi termini: già fortemente indebitata, La Centrale, che deteneva una partecipazione di maggioranza assoluta nella società quotata Toro Assicurazioni, si indebitava ulteriormente per acquistare fuori borsa un ulteriore, significativo pacchetto di azioni Toro. La sentenza è molto poco esaustiva nel chiarire la dinamica dei fatti, ma conclude a favore degli amministratori convenuti in giudizio motivando che «se non può impegnarsi che l’operazione Toro abbia avuto connotati di rischiosit&ag
rave; e di alea, non può negarsi che quelle sui titoli – anche delle dimensioni di quella in esame – rappresentano per una società finanziaria una operazione assolutamente naturale le cui motivazioni devono presentare solo una coerenza con le ragioni d’essere stesse all’impresa». Affermazione, questa, che si ricollega a quella fatta in precedenza dalla medesima Corte, e che si rinviene anche in numerose altre sue pronunce, per cui il sindacato giudiziario sull’operato degli amministratori «non può e non deve tradursi in una valutazione ex post della discrezionalità ispiratrice dell’azione gestionale sotto i profili della sua opportunità e convenienza o del solo risultato economico finale»: poiché sull’operazione Toro non erano emersi indizi di anomalia dell’operazione ritenuti significativi (a differenza che per le operazioni Il Gazzettino e Rizzoli), il Tribunale ha preferito non rischiare di sostituire il proprio giudizio ex post a quello degli amministratori, ribadendo dunque il principio dell’insindacabilità delle scelte di gestione purché non palesemente irrazionali e di pura sorte. […] Osservazioni conclusive Scopo di questo lavoro era di fornire qualche indizio utile per rispondere all’interrogativo se i giudici siano pronti a svolgere il più complesso e centrale ruolo per loro ritagliato nelle riforme del diritto societario approvate o in discussione. Sono stati illustrati o richiamati 29 di 128 provvedimenti emessi dal Tribunale di Milano nel periodo 1985-2000, traendone indicazioni in merito alla tendenza dei giudici: a) a dare e a tenere conto del dissidio sostanziale che ha causato la controversia; b) a usare canoni formalistici di giudizio e a non imporre il rispetto di regole che impongono oneri burocratici ingiustificati; c) a non sindacare le scelte di gestione pur quando siano evidentemente influenzate da un conflitto d’interessi in capo al controllante; d) a porsi il problema degli effetti che un determinato giudizio può avere sugli incentivi della generalità dei destinatari delle norme di diritto societario. L’esiguità del numero di sentenze analizzate non consente di formulare conclusioni di tipo quantitativo. Sui diversi aspetti sui quali si è concentrata l’indagine è possibile tuttavia osservare che: a) è raro, anche se meno infrequente in tempi più recenti, che le sentenze diano conto del dissidio reale sotteso alla controversia decisa dal giudice. In qualche caso, peraltro le sentenze lasciano intendere, più spesso involontariamente, che la decisione raggiunta si giustifica, sul piano sostanziale, piuttosto per la considerazione dei torti e delle ragioni reali sottostanti che per gli argomenti giuridico- formali espressamente utilizzati; b) diverse sentenze rivelano la tendenza dei giudici a imporre l’osservanza di procedure e regole in nessuno modo giustificabili dal punto di vista della sostanza degli interessi in gioco, anche quando ci sarebbe spazio per un soluzione interpretativa diversa; c) elevato è il grado di deferenza nei confronti delle scelte di gestione compiute da controllanti in conflitto d’interessi; rari sono infatti i casi in cui il giudice è disposto a riesaminare con il dovuto rigore il merito di tali scelte, per verificare che esse siano conformi all’interesse di tutti i soci in quanto tali; d) infine, i giudici milanesi tendono a non esplicitare alcuna preoccupazione per i possibili effetti di segnalazione dei propri giudizi e a non ricorrere ad argomentazioni orientate alle conseguenze delle proprie decisioni sul comportamento dei destinatari delle norme di diritto societario, a scapito dell’efficacia di segnalazione delle decisioni stesse. Occorre chiedersi in che misura queste conclusioni forniscano elementi di riflessione nella prospettiva delle riforme in discussione. Si potrebbe infatti obiettare che i risultati di questa indagine sono soltanto i frammenti di una fotografia, per di più sfuocata, della realtà esistente, la quale è il prodotto anche del contesto esistente di regole sostanziali, processuali e di ordinamento giudiziario. Non è affatto detto che i medesimi giudici deciderebbero le controversie allo stesso modo se quel contesto di regole cambiasse. Ciò nondimeno, una conoscenza più approfondita del modo in cui i giudici decidono oggi secondo le regole esistenti può essere stimolo per procedere sulla strada di un mutamento anche delle regole che più direttamente attengono all’esercizio della funzione giurisdizionale nel campo del diritto e dell’impresa; e può, in secondo luogo, aiutare a delineare un sistema di regole, anche sostanziali, che inducano i giudici a decidere in modo funzionale a un più efficiente governo delle imprese. *docente di Diritto Commerciale presso l’Università di Bologna ed ex commissario Consob