di Guido Salerno Aletta e Giuliano Castagneto

Condannati per insufficienza di prove da Moody’s, promossi dai mercati. Nella notte tra giovedì 12 e venerdì 13 luglio, poche ore prima di un’importante emissione di titoli di Stato – e poche ore prima che si sapesse che la Procura di Trani ha deciso di chiedere il rinvio a giudizio dell’agenzia di rating – Moody’s ha declassato l’Italia a Baa2 da A3, portandola a soli due gradini dal livello junk e mantenendo l’outlook negativo (nel weekend è previsto anche il downgrade delle banche italiane). Uno sparo nel buio che ha preso molti alla sprovvista. «Di solito queste cose succedono il venerdì sera, il che lascia agli operatori il weekend per meditare sui possibili effetti», spiega un trader. Addirittura le più alte istituzioni europee hanno criticato la scelta dei tempi. Il commissario Ue agli Affari Economici, Olli Rehn, ha giudicato «inappropriato» il momento scelto dall’agenzia per comunicare il declassamento. Durissime Abi (si veda intervista in pagina) e Ania, cioè le associazioni di categoria di banche e assicurazioni, che hanno definito «irresponsabile» il giudizio di Moody’s, bollato dal ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, come «del tutto ingiusto e fuorviante perché non tiene conto del grande lavoro che l’Italia sta facendo ». Lavoro che il portavoce di Olli Rehn, Simon O’ Connor, riconosce «non avere precedenti». Due numeri per evidenziarne l’entità. Come sottolinea Luigi Speranza, capo economista per l’area euro di Bnp Paribas, «nei primi sei mesi del 2012 il fabbisogno di cassa dello Stato italiano è ammontato a 29 miliardi, mentre nello stesso periodo dell’anno precedente la cifra era di 43 miliardi». Un calo del 33%. In effetti tra i fattori alla base del taglio ben pochi sembrano minacce concrete. Spiega Moody’s nel comunicato: «L’Italia molto probabilmente affronterà un ulteriore aumento dei costi di finanziamento o la perdita dell’accesso al mercato in modo più marcato rispetto a cinque mesi fa a causa della sempre più fragile fiducia del mercato, del rischio contagio da Grecia e Spagna e dei segnali di erosione della base di investitori». La situazione greca è «peggiorata» da inizio anno con la crescente possibilità di un’uscita del Paese dall’Eurozona. Inoltre è più probabile che la Spagna «possa richiedere ulteriori aiuti». Intanto «l’alto debito italiano » e le «significative necessità finanziarie di 415 miliardi (pari al 25% del pil) nel 2012-2013» e il calo della base di investimento estera «generano crescenti rischi di liquidità». D’altra parte, la decisione presa al Consiglio Europeo di fine giugno di utilizzare il Fondo salva-Stati temporaneo (Efsf) e quello permanente (Esm) per tutelare i Paesi sotto l’attacco della speculazione «implicitamente riconosce che tali strumenti potrebbero servire a sostenere l’accesso dell’Italia» ai mercati. Infine c’è da considerare «l’ulteriore peggioramento dell’economia italiana, che sta contribuendo al deterioramento fiscale»: ci si aspetta un calo del pil del 2% in termini reali quest’anno, il che significa «nuove pressioni sulla capacità del Paese di centrare i target». Ebbene, in tutte queste considerazioni l’unico elemento concreto è il calo del pil, previsto dal Fmi già da diversi mesi: bastava informarsi. Le altre sono tutte considerazioni di scenario. A questo punto, è il caso di raccontarla tutta la storia degli anni dall’introduzione dell’euro all’inizio della crisi del 2008, che mette in luce l’incapacità di tanti analisti di leggere i dati economici e finanziari nel loro complesso, mettendo insieme l’andamento dei debiti pubblici, quello della bilancia dei pagamenti correnti e quello delle esposizioni bancarie. Si svegliano tutti all’ultimo momento e forse ancora non è chiaro a tutti che cosa sia successo finora. C’è chi ha fatto sforzi concreti per ridurre il debito pubblico e tenere sotto controllo la bilancia dei pagamenti senza prendere rischi che si manifestano solo ora. Altro che cicale e formiche: qui si tratta di faine e galline dalle uova d’oro. Cominciamo dai Paesi cosiddetti virtuosi. La Germania, contrariamente al Trattato di Maastricht, fra il 2000 ed il 2007 ha aumentato il rapporto debito-pil di oltre cinque punti, passando dal 59,1% al 65,2%, cumulando però un attivo della bilancia dei pagamenti correnti pari al 25,6% del pil. Nella generale disattenzione il suo sistema bancario ha preso grossi rischi, che hanno richiesto aiuti di Stato per 620,3 miliardi, cioè il 24,8% del pil relativo al 2010: in pratica ha messo sulle spalle di cittadini e lavoratori tedeschi un onere sostanzialmente identico al frutto di sette anni di lavoro. I tedeschi ancora non lo hanno capito, ma sono state le loro banche ad andare in giro a far danni. Lo Stato tedesco ha già erogato aiuti per 252,5 miliardi e altri 367,7 sono stati autorizzati. La Francia ha fatto più o meno lo stesso: ha aumentato il rapporto debito-pil del 6,9%, mentre le sue banche si sono esposte a tanti rischi che Parigi ha già dovuto autorizzare aiuti per 351,1 miliardi (il 18,2% del pil), di cui 116,3 già erogati. Forse l’estenuante trattativa sugli sprechi della finanza pubblica greca ha una ragione più profonda: il tentativo di portare l’attenzione sull’insipienza della sua classe politica, sugli sprechi e sull’evasione fiscale, per nascondere ben altre magagne. Infatti, vero è che i conti di Atene sono stati taroccati per anni, ma intanto tutti hanno fatto finta di non vedere che dal 2000 al 2007 si accumulava un disavanzo della bilancia dei pagamenti che è arrivato al 66,7% del pil, volto a finanziare lo sbilancio tra gli investimenti ed il risparmio interno. Nessuno ha guardato nei conti delle banche di Atene, che hanno già ricevuto aiuti di Stato per 108,7 miliardi (il 47,1% del pil) di cui 38,8 già erogati. Meno ancora hanno turbato i sonni i conti del Portogallo: non solo ha peggiorato del 19,9% il rapporto debito-pil nel periodo 2000-2007, ma ha accumulato un disavanzo di parte corrente pari al 74,8% del pil e le sue banche hanno ricevuto aiuti di Stato per 47,4 miliardi. Ma è la Spagna il vero esempio di quanto il Trattato di Maastricht sia inutile e il Fiscal Compact fuorviante: sono strumenti che servono a focalizzare l’attenzione sul comportamento degli Stati, mentre il sistema bancario fa scelte poco commendevoli, usando un eufemismo. Basti dire che tra il 2000 e il 2007 il rapporto debito-pil di Madrid è sceso vertiginosamente, passando dal 59,3% del pil al 36,3%. Nello stesso periodo però la bilancia dei pagamenti spagnola accumulava un passivo verso l’estero pari al 46,2% del pil e le sue banche accumulavano i rischi di cui solo ora ci si rende conto. Il governo di Madrid ha già erogato loro aiuti per 88,8 miliardi, al netto del sostegno fino a 100 miliardi che sarà erogato dall’Unione Europea. Il sistema bancario olandese non è stato da meno: mentre lo Stato si è comportato bene, facendo scendere il rapporto debito-pil dell’8,5% e l’economia ha accumulato un avanzo con l’estero del 43,9% del pil, le sue banche sono state meno sagge: così sono state autorizzate a ricevere aiuti per 313,3 miliardi (il 53% del pil) e ne hanno già ricevuti per 95,1 miliardi. Nel complesso, gli aiuti di Stato già autorizzati dall’Ue a favore del settore bancario, per la sola Eurozona, sono ammontati a 2.864,4 miliardi, di cui 1123,8 già erogati e 1740,6 in attesa di utilizzo. Gli aiuti concessi dai Paes
i Ue al di fuori di Eurolandia non sono da meno: 1.642 miliardi, di cui 484 già erogati. La Gran Bretagna ha erogato aiuti per 850 miliardi (il 50% del pil 2010), mentre la Danimarca si è dovuta addossare addirittura 600 miliardi (il 256% del pil!), di cui 157 già erogati. Sono dati ufficiali forniti da Michel Barnier, commissario europeo: peccato però che le agenzie evidenzino solo i dati aggregati. A leggerli in dettaglio si capisce chi è in difficoltà e chi no. L’Italia nel frattempo ha fatto del suo meglio: fra il 2000 ed il 2007 ha ridotto del 5,4% il rapporto debito-pil e ha accumulato un disavanzo corrente del 4,9%, mentre le sue banche sono state attente a non prendere rischi. Esclusi i recenti interventi a favore di Mps, già autorizzati da Bruxelles e ancora non inclusi nelle statistiche, ci si è limitati ad attribuire garanzie per 20 miliardi (l’1,3% del pil). L’Italia sta approvando quasi senza discuterne il Fiscal compact, invece di pretendere che prima siano azzerati tutti gli aiuti di Stato concessi ai diversi sistemi bancari, e accetta anche la prospettiva dell’Unione bancaria e della solidarietà europea senza aver fatto un minimo di conti. Così come ha già aderito agli accordi dell’Efsf e prossimamente all’Esm con una proporzione di oneri che penalizza il Paese senza motivo, visto che rispecchia le quote nella Bce anziché il rischio assunto da ciascun sistema. Paradossalmente, proprio i tanto temuti mercati sembrano ora riconoscere questi sforzi, tanto che venerdì 13 luglio hanno prontamente risposto all’offerta di titoli del Tesoro. Il Btp a tre anni con scadenza nel 2015, un’emissione da 3,5 miliardi, ha ricevuto richieste pari a 1,7 volte l’offerta, e questo nonostante il rendimento offerto sia stato 4,65%, di ben 55 punti base inferiore a quello del collocamento precedente, mentre lo spread Btp Bund si è mantenuto a quota 467 punti, dopo essersi allargato a 485 nella mattinata, in pratica neutralizzando l’effetto-Moody’s. Certo, se le lotte politiche interne si giocano cercando una sponda tra chi dovrebbe aiutarci da fuori, li si invoglia a giocare contro l’Italia. Sveglia! (riproduzione riservata)