MARCO PANARA

L’Italia è piena di aziende che valgono molto e costano poco. E’ un’altra faccia del rischio paese, che incide sul costo dei Btp e del credito bancario e che deprezza in un circolo vizioso le imprese che hanno qui la loro sede. Se Bulgari è stata pagata a peso d’oro, molte società quotate capitalizzano meno del loro patrimonio, come se la loro attività non valessero nulla, anzi fossero un peso. C’è chi ha visto nell’attacco scatenatosi dieci giorni fa la prima mossa di una strategia, volta non a distruggere l’Italia ma a indebolirla, a preparare il terreno per una campagna di conquista in larga scala. L’obiettivo euro, sostengono gli stessi, è troppo grosso, affossare l’Italia metterebbe in crisi l’Europa intera e il danno per l’economia mondiale sarebbe enorme. Si aprirebbe un periodo di instabilità lungo, complesso e dagli esiti imprevedibili che piegherebbe le economie già fragili non solo del vecchio continente ma anche degli Stati Uniti, che è in grave difficoltà anch’essa, e dell’indebitatissimo Giappone. Una crisi che farebbe male alla Germania, che sui mercati europei fa buona parte del suo surplus commerciale e alla fine persino alla Cina e agli altri emergenti, che con Stati Uniti, Europa e Giappone in difficoltà finanziaria, economica e istituzionale non riuscirebbero a garantirsi da soli i consueti ritmi di crescita. Alla fine una crisi di queste dimensioni non farebbe comodo a nessuno, neanche a quelli che oggi stanno guadagnando miliardi attaccando i pezzi più fragili di un’Europa che non si sa difendere. Allora tireranno la corda fino all’ultimo, ma non si arriverà allo strappo finale, è la conclusione. Sempre che, come talvolta accade a chi ama i giochi pericolosi, la partita non sfugga di mano. L’Italia, in questa partita, è il più grande degli anelli deboli, quello dove la corda si è attaccata nella certezza di poter realizzare guadagni enormi, ma sapendo che se si rompe quell’anello è l’intera catena a saltare. Ma la differenza con la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo non è solo quantitativa: giocando con un debito pubblico di oltre mille e 800 miliardi di euro c’è assai più da guadagnare che con debiti di poche centinaia di miliardi. C’è anche una differenza qualitativa, ed è che in Italia, a differenza degli altri paesi, c’è un ricco tesoro fatto di migliaia di imprese, alcune centinaia delle quali hanno nei loro settori quote rilevanti del mercato interno e internazionale. Imprese che con il paese in queste condizioni sono a prezzi da saldo. Il Ftse Mib, l’indice principale della Borsa di Milano, che quattro anni fa superava quota 42 mila ora è intorno a 18 mila 500. E se il confronto con i livelli pre crisi può sembrare fuorviante, all’inizio di febbraio di quest’anno sfiorava comunque quota 22 mila 800, il 20 per cento più di oggi. Il confronto con le altre borse europee è impietoso: il Cac 40 di Parigi da luglio 2007 ha perso il 35 per cento, da febbraio scorso meno del 10 per cento; il Ftse 100 di Londra dal 2007 poco più del 10 per cento e negli ultimi sei mesi meno del 5 per cento; il Dax di Francoforte nello stesso periodo è passato da 7mila 300 a poco sotto 7 mila 200, una limatura. L’Italia quotata in borsa è quindi a sconto rispetto alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania quotate in borsa. E se ci sono casi clamorosi come la Banca Popolare di Milano che assai più a causa di una governance insostenibile che per i conti si potrebbe conquistare (ma essendo una popolare non si può) con una manciata di milioni, poco più di 600, non meno clamorosa è la lista di imprese bancarie e non, assai più grandi che capitalizzano la metà del proprio patrimonio. Restando tra gli istituti di credito, Unicredit, a fronte di un patrimonio netto di oltre 64 miliardi di euro ne vale in Piazza Affari appena 24, Intesa San Paolo con un patrimonio di 53,5 miliardi ne capitalizza al listino 26,3., il Montepaschi che di miliardi di patrimonio ne ha 17, in borsa arriva a 5 e messo. Per non parlare di Mediobanca, scrigno di Generali, Rcs e Telecom oltre che banca d’affari in espansione, che capitalizza 5,3 miliardi. Tutte e tre hanno superato gli stress test e non ci sono elementi che facciano pensare che i loro conti siano pieni di buchi. Soffrono, perché il rischio Italia fa pagare loro il denaro assai più delle concorrenti francesi e tedesche e perché le sofferenze sono elevate e l’economia italiana non tira. Ma la penalizzazione di borsa è enorme e dipende, nel confronto internazionale, in parte anche dal fatto di avere la sede a Milano e non oltrefrontiera. Unicredit in particolare ha oltre metà delle sue attività tra la Germania, l’Austria e i paesi dell’Est, grazie a un impero costruito negli ultimi dieci anni e impossibile o costosissimo da replicare. Certamente assai di più della decina scarsa di miliardi che costerebbe raccogliere il 30 per cento del suo capitale in Borsa e diventarne il padrone. Intesa è leader assoluto in Italia ed ha una presenza importante all’estero, con gli stessi dieci miliardi se ne farebbe un ottimo boccone. Sono circolati dossier, studiati anche molto attentamente, in particolare su Unicredit, che hanno solleticato l’interesse di Hsbc, che con i suoi 122 miliardi di capitalizzazione e 111 di patrimonio netto si ripagherebbe l’acquisto con gli utili di pochi trimestri. Si vocifera che la tentazione ci sia stata e non sia del tutto sopita. Le altre banche europee non sono tanto più forti delle italiane, ma il Santander vale in Borsa 75 miliardi e in un anno fa utili per oltre 8, mentre Bnp Paribas sia pure a sconto del 20 per cento scarso sul patrimonio, capitalizza pur sempre 55 miliardi di euro, più della somma dei nostri due campioni nazionali. Non attaccheranno, ma se decidessero di farlo chi potrebbe difenderle? Le fondazioni azioniste non hanno munizioni a sufficienza per contrastare quei colossi e il capitalismo italiano ha dimostrato i suoi limiti lasciandosi sfilare bocconi ben più digeribili come Edison e Parmalat. La Banca d’Italia si dice, ma quanto potrebbe reggere l’argine se a stringere l’assedio fossero delle blasonate banche comunitarie? La lista non si esaurisce con le banche. Generali capitalizza la metà di Allianz, anche se il rapporto con il patrimonio netto è migliore rispetto alla tedesca e anche alla francese Axa. Fiat, numero uno della manifattura nazionale, capitalizza 8,7 miliardi contro i 39 della Volkswagen e gli oltre 42 della Bmw. Telecom Italia, nonostante il peso dei debiti ereditati dalle gestioni precedenti, ha pur sempre un patrimonio netto di 29 miliardi, ma in borsa ne vale solo 16. Tanto per avere un’idea di quello che accade fuori, la sua azionista Telefonica ne vale 72, tre volte il patrimonio di 24,5 miliardi, più piccolo di quello di Telecom, mentre le azioni di France Tel e Deutsche Tel sommano rispettivamente un valore di 36,7e 44,3, ciascuno pari a 1,3 volte il patrimonio. Chi la difenderebbe Telecom? La Telco che fa fatica a far quadrare i suoi conti, oppure gli azionisti italiani di Telco, ovvero Intesa, Generali e Mediobanca che nei giorni scorsi hanno dovuto svalutare le loro partecipazioni in quella scatola? Tra le tante vale la pena di citarne almeno un’altra, Italcementi, che ha un patrimonio di 3 miliardi e mezzo e ne capitalizza in borsa solo 1,3, meno della metà. I colossi con cui si deve confrontare si chiamano Holcim, che ha un patrimonio di 14 miliardi e ne capitalizza 16, e Crh, che ha 10 miliardi di patrimonio e ne capitalizza altrettanti. I numeri sono numeri, ora l’Italia è considerata un paese malato e questo
potrebbe rinviare l’attacco, ma prepariamoci, a questi prezzi il paese è in saldo.