Il valore indeterminato della causa si riflette sull’onorario

 di Dario Ferrara  

Il dare e avere vale anche per l’avvocato. Nella mega-causa per danni il difensore chiede per conto del cliente un risarcimento di oltre 150 miliardi di vecchie lire ai danni della banca. Ma la domanda principale è corredata di un’altra serie di istanze dalla ricaduta difficilmente calcolabile. Non può allora dolersi, il legale, se il giudice nel determinare l’entità della causa decide per il valore indeterminabile, applicando di conseguenza le tariffe professionali. È quanto emerge dalla sentenza 16318/11, pubblicata il 26 luglio 2011 dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Pretese a raffica. Più che una serie di domande, quella che l’avvocato rivolge contro l’istituto di credito è una vera e propria raffica. Il difensore, in particolare, chiede al giudice: l’accertamento della nullità delle operazioni compiute in violazione delle norme di legge e di comportamento; la condanna della banca alla restituzione dei titoli in portafoglio; l’accertamento che nulla era dovuto dal cliente all’istituto in relazione ai rapporti intercorsi. Una mole di questioni che convince il giudice a stabilire che la causa sia di valore indeterminabile ai fini della determinazione del compenso dovuto all’avvocato. Ai fini della determinazione dello scaglione per la liquidazione degli onorari, infatti, quando sono proposte più domande, alcune di valore indeterminabile e una sola, di risarcimento del danno, di valore determinato, esse si cumulano tra loro, e la causa va ritenuta di valore indeterminabile.

Tiro corretto. Bocciato il ricorso del professionista, che tuttavia ottiene una soddisfazione morale (oltre ad aver comunque incassato un parcella considerevole: circa 80 mila euro). La motivazione dell’ordinanza impugnata deve essere corretta ex articolo 384 Cpc, ultimo comma. La formula giustapposta alla richiesta di risarcimento fissata in 150 miliardi di vecchie lire che allude alla somma «maggiore o minore che risulterà in corso di causa» è da considerarsi alla luce del gergo forense una mera clausola di stile, che da sola non vale a inficiare la nettezza della domanda proposta.

Banca smentita. Assorbito il ricorso incidentale della banca. Non ha buon gioco l’istituto di credito nel dolersi che il Tribunale abbia deciso secondo equità, liquidando una somma complessiva – a titolo di onorari e diritti – largamente superiore ai massimi tabellari previsti per le cause di valore indeterminabile e di particolare importanza, perfino al quadruplo dei massimi tabellari: un importo, sosteneva la banca, che può essere sì astrattamente attribuito ma soltanto in presenza di un preventivo parere del Consiglio dell’Ordine, nella specie indicato come mancante. Né risulta fondata la censura secondo cui il primo giudice avrebbe dovuto trasformare il rito in quello ordinario di cognizione, sul rilievo che la banca aveva lamentato anche diverse inadempienze agli obblighi scaturenti dal mandato difensivo e aveva preteso, svolgendo apposita domanda riconvenzionale, la restituzione della differenza tra la somma già corrisposta e quella minore che dovesse essere liquidata a titolo di compenso.